Leggo sempre con piacere la newsletter che mi arriva da Angelo Gaja per raccontare le sue esperienze ed idee sul mondo del vino. Un esempio di cosa significa comunicare con efficacia senza ricorrere a “fuochi d’artificio”. Quando le aziende del vino comprenderanno che raccontare la propria esperienza sul mercato è una delle modalità migliori per farsi riconoscere, per essere interessanti, sarà sempre troppo tardi.

Nella sua ultima newsletter, Gaja racconta del suo ingresso negli Usa, talmente paradigmatico del significato di “aprire un nuovo mercato” e del ruolo del tempo e della pazienza nel wine business da avermi indotto a parlarne in questo mio spazio dell’editoriale del venerdì.

Nel 1974, quando aveva 34 anni, Angelo Gaja andò alla scoperta dell’America.

“Ci rimasi due settimane. Andavo nei ristoranti importanti, che erano tutti i francesi, e nelle loro cantine non c’era traccia di vino italiano. I ristoranti italiani, invece, erano delle trattorie messe in piedi da emigrati, gente di grande volontà che metteva le mamme e le nonne in cucina. Capii in fretta che mi aspettava una sfida veramente difficile. Conobbi un agente (broker), il signor Bonsal Seggerman, che per farmi capire il mercato mi portò in due posti: il primo era un’enoteca di vini italiani nel Queens gestita da un molisano che mi disse subito che i prezzi dei nostri vini erano troppo alti per concorrere con quelli francesi. Il ritornello che tutti ripetevano era che i nostri vini dovevano essere “cheap and cheerful”: costare poco e fare allegria.
Il secondo posto era Sherry-Lehmann, un’enoteca molto importante su Park Avenue gestita da Sam Aaron, che con grande gentilezza mi accolse stappando una bottiglia di champagne Bollinger. Al termine dell’incontro mi disse anche lui che con i miei prezzi non c’era mercato negli Stati Uniti, ma non mi scoraggiò, anzi mi consigliò di aspettare. Mi disse che il mercato americano avrebbe premiato la capacità di attendere, la pazienza e la dedizione. Era solo questione di tempo“.

Sette anni dopo, nel 1981, uscì un libro fondamentale scritto da Burton Anderson, un giornalista americano che vive ancora in Italia. Si intitolava: “Vino: The Wines and Winemakers of Italy”. Il libro di Anderson raccontava i produttori e i vini italiani con un punto di vista nuovo, che premiava tradizioni, artigianato e qualità. Fu una svolta.

“Tornai negli Stati Uniti alla fine di quell’anno e l’atmosfera era già cambiata: gli incontri andarono nettamente meglio e tornai a casa con i primi ordini. Il libro di Anderson è stato di un’importanza enorme, è il primo lavoro in inglese sul vino italiano ed è stato fonte di ispirazione per tutti i giornalisti americani. Ma per archiviare l’idea che i vini italiani dovessero costare poco ci volle ancora tempo. Nel 1980 a Boston avevo trovato un importatore, Jerry Tosi, un uomo che aveva pilotato caccia americani durante la guerra. Si era innamorato della cucina italiana e dopo la guerra aveva creato una ditta di importazione di prodotti come olio e pasta per la ristorazione a cui aveva aggiunto una selezione di vini per le enoteche di Boston. Dopo essere stato all’Enoteca Pinchiorri a Firenze, mi cercò per ordinare i miei vini e organizzò una degustazione allo storico hotel Colonnade di Boston. Nonostante una memorabile bufera di neve, la sala si riempì. Alla fine, tra il pubblico, si alzò una persona per fare una domanda: io, a causa del mio inglese tremendo, non riuscii a capire cosa stesse dicendo ma compresi che era infuriato perché prese i suoi fogli e abbandonò la sala. Quell’uomo era Toni Spinazzola, il critico enogastronomico del Boston Globe, e sosteneva che i prezzi dei vini Gaja rovinavano l’immagine del vino italiano. Questo era il clima”.

La svolta è arrivata verso la fine degli anni Ottanta: “Ricordo Ed Koch, sindaco di New York per 12 anni, che pranzava al ristorante Il Mulino, a New York e sceglieva sempre il nostro vino. Era così appassionato che chiedeva di tenere la bottiglia di Barbaresco GAJA sul tavolo, rivolta verso la sala, in modo che tutti vedessero cosa stava bevendo. Un altro grande sponsor del vino italiano è stato Robert De Niro con il suo ristorante “Tribeca”“.

Angelo sintetizza così la lezione fondamentale del suo rapporto con gli Stati Uniti: “Gli americani sono disposti a farti salire sul ring anche se sei un esordiente, ma devi mostrare di saper combattere. Se ti sai muovere bene e hai questo coraggio, ti apprezzano e ti premiano. Per questo mi piace attraversare l’Oceano: perché quando ritorno in Piemonte ho una carica addosso pazzesca, cammino a cinquanta centimetri dal suolo, per aria, torno spronato”.