Se c’è una cosa difficile da fare oggi è ipotizzare gli scenari del futuro. Ci aggrappiamo al mare di indagini che si stanno svolgendo in questi mesi ma quello che emerge sempre è sostanzialmente un denominatore comune, l’incertezza.
Andando però un po’ più in profondità ci si accorge che, pur in una fase di enorme incertezza, vi è un fattore presente in tutte le analisi: la forza del brand.
Non a caso anche in questi difficili mesi le aziende che meglio d’altre hanno retto l’urto di una emergenza così straordinaria, sono quelle che hanno brand forti, riconoscibili, capaci di evocare quei valori in cui si riconoscono i consumatori di oggi.
Il problema è che, almeno nel settore del vino (ma non pensiamo che altri comparti siano messi meglio), sono decisamente pochi i brand che hanno una tale forza.
Al punto che bisogna domandarsi come mai negli oltre trent’anni di crescita del vino italiano nei mercati di tutto il mondo si sia riusciti a fare emergere sostanzialmente pochi brand forti.
Di fatto, potremmo affermare, sono state molto poche le imprese del vino italiane che hanno adottato strategie efficaci di sviluppo dei loro brand.
La gran parte si è “accontentata” della forza del proprio brand territoriale, o della tipologia di prodotto (Prosecco, Pinot Grigio, ecc.).
Un limite che oggi il nostro settore paga notevolmente perché mai come ora sarebbe necessario avere brand del vino più riconoscibili all’interno dei diversi target di consumatori.
A questo proposito è molto interessante l’analisi di WebGlobalIndex sui nuovi consumatori statunitensi che evidenzia come oggi solo uno su cinque si riconosce nei valori espressi dai brand presenti sul loro mercato.
Ma analisi simili realizzate su altri mercati evidenziano dati non lontani da quelli registrati negli Usa.
Sono tante le ragioni di questa disaffezione, ma la principale appare l’incapacità di gran parte dei brand odierni di interpretare al meglio le tante “diversità” all’interno delle nostre società.
Diversità etniche, sociali, culturali, di genere, politiche, di stili di vita, potremmo andare avanti all’infinito.
Tutte diversità che generano anche una straordinaria segmentazione dei consumatori sui tanti mercati mondiali.
Tante diversità che esprimono fabbisogni molto eterogenei sia dal punto di vista “produttivo” che “comunicativo”.
Eppure, tornando al nostro settore vitivinicolo, tutt’oggi sono pochi i brand che riescono ad esprimere valori coerenti e riconoscibili rispetto al target che vogliono intercettare.
E forse, il primo motivo di tale difficoltà è proprio la corretta definizione del target che si vuole coinvolgere con la propria produzione, con la propria comunicazione aziendale.
Una vecchia storia, molti di voi obietteranno, ma oggi questo limite, che sembrava quasi veniale fino ad alcuni anni fa, è diventato una lacuna grave e pericolosa per molte delle nostre imprese.
Per la valorizzazione dei propri brand, c’è un’ulteriore complicazione: la progressiva sfiducia da parte dei consumatori nei confronti dei cosiddetti media tradizionali.
Sempre WebGlobalIndex ha evidenziato come negli Usa più del 40% dei consumatori non ritiene più affidabili i media tradizionali a causa, in particolare, delle cosiddette “fake news” e della scarsa obiettività dettata dalle influenze politiche.
E purtroppo non deve illudere la scelta assoluta sui social media perché anche su questo fronte oggi emergono sempre più dubbi e perplessità da parte di utenti e consumatori.
Tutte problematiche che evidenziano un aspetto fondamentale e complesso al tempo stesso: la capacità di un’azienda di costruire un maggior coinvolgimento diretto con il proprio brand.
Se c’è stato un tempo, infatti, in cui la costruzione della propria immagine e reputazione poteva essere delegata ad un’entità terza, oggi diventa indispensabile un maggior coinvolgimento dell’impresa nella definizione della sua identità più autentica e credibile.
Questo, a nostro parere, è ancor più vero nel mondo del vino, composto da una miriade di diverse realtà produttive.
Maggior coinvolgimento dell’azienda stessa non significa considerare le “consulenze esterne” inutili ma è necessario un contatto molto più costante tra chi produce e chi “costruisce l’immagine”, “comunica l’identità” di un’azienda.
Un esempio eloquente in questa direzione viene proprio dai social media che in questi mesi difficili hanno avuto un ruolo chiave nella comunicazione delle aziende.
Ebbene, le comunicazioni digitali che sono risultate più efficaci sono state quelle dove i produttori ci hanno “messo la faccia” nella modalità più autentica e diretta.