In relazione al mio ultimo articolo legato alle fosche previsioni per il 2023 dell’Osservatorio del vino di Unione Italiana Vini, mi sono arrivate moltissime mail e messaggi da aziende che sottolineavano la positività dei loro risultati e il loro ottimismo anche per le prospettive future.

Non sono stati pochi, poi, quelli che hanno contestato l’analisi prospettica di Uiv considerandola troppo pessimistica e anche pericolosa in quanto generatrice di problematiche, soprattutto nei confronti del mondo della distribuzione (GDO in primis). Riguardo quest’ultimo aspetto, in effetti, anche il sottoscritto ha ricevuto un paio di telefonate da buyer della GDO che sottolineavano, in estrema sintesi e con una certa brutalità, come il mondo del vino chieda loro aumenti di listino quando, di fatto, hanno le cantine piene.

Sicuramente è molto difficile fare il giornalista “specializzato”, soprattutto quando si vogliono approfondire tematiche di ordine economico. Le analisi (tutte, nessuna esclusa) presentano sempre dei limiti perché guardano i comparti in maniera generale e la statistica, come ci ha ben insegnato il grande poeta Trilussa è quella che ci porta a leggere che mangiamo un pollo all’anno quando tristemente sappiamo che qualcuno non ha visto nemmeno un’aletta sul suo piatto.

E allora che fare? Non è un dilemma di poco conto. Il dovere giornalistico porta sempre a raccontare, scrivere ciò che viene da fonti ufficiali, di comprovata affidabilità; nel caso in oggetto, l’Osservatorio di Uiv rientra assolutamente in questa categoria.
Nel mio articolo scorso avevo evidenziato la necessità di approfondire l’analisi cercando di comprendere meglio quali erano le aree in difficoltà, i cosiddetti “vini poco appetibili” dal mercato rispetto invece a quelli che funzionano, che sono in salute. Come pure avevo sottolineato l’opportunità di mettere finalmente più in risalto i modelli di impresa che oggi sono più compatibili con le dinamiche dei mercati per far comprendere meglio che, aldilà delle congiunture, a vincere saranno sempre di più le imprese ben strutturate, organizzate e soprattutto con risorse umane competenti al loro interno.

Per questa ragione, ho ritenuto opportuno dare spazio all’analisi di Uiv e darò comunque sempre spazio anche a notizie “negative” (ovviamente se frutto di fonti credibili), non solo per dovere giornalistico, ma soprattutto perché solo guardando la “verità” possiamo crescere come comparto.

Ho messo la parola verità tra virgolette in quanto sposo da sempre appieno l’interpretazione che di essa ha dato magistralmente il grande Luigi Pirandello. Ricordo che, per Pirandello, la realtà è un gioco illusorio che si frammenta in modo diverso, in quanto ognuno di noi ha una visione soggettiva della vita e una verità individuale. Di conseguenza, non c’è una verità assoluta, ma tante verità quante sono le persone.

E, nel caso del vino, vi sono tante verità quante sono le imprese. Considerando che in Italia si parla tutt’oggi di quasi 46.000 imprese vinificatrici, ci vuole poco ad immaginare quante diverse verità si possono trovare sul mercato.

Allora ripeto ancora una volta la domanda: che fare?

Innanzitutto avere più analisi, più fonti che si impegnino autorevolmente ad elaborare indagini. Considerando, poi, la grande frammentazione del tessuto produttivo italiano, sarebbe decisamente opportuno avere analisi dal mondo dei vignaioli, da quello delle cooperative e, ovviamente, da quello delle grandi imprese che sono spesso le più facili da “indagare”, data anche la maggiore trasparenza dei loro fatturati.

Ma penso che sarebbe anche utile che le imprese virtuose raccontassero meglio le ragioni del loro successo. Spesso ci si limita a dare qualche numero, ma sarebbe molto interessante e utile alla causa complessiva del nostro settore approfondire i motivi che le hanno portate ad essere più forti e competitive.
Questo vale anche per le denominazioni, perché comprendere bene le ragioni delle difficoltà è determinante, ma lo è altrettanto conoscere i motivi del successo.

Quello che dobbiamo evitare è continuare a parlare di vino italiano in modalità “generica”, superficiale.

Per superare questo stato di cose, tuttavia, dobbiamo accettare la sfida della trasparenza che ormai non è più una tematica solo etica ma può essere sempre di più un vantaggio competitivo con grandi ricadute sul fronte economico.
La nostra biodiversità vitienologica, infatti, sarà concretamente valorizzata se saremo finalmente capaci di esaltare le differenze invece di occultarle continuamente in una comunicazione sempre uguale a sé stessa e con costanti omissioni.

La brava Caterina Caselli cantava nel lontano 1966 “La verità ti fa male, lo so”. Io penso invece che al vino italiano la verità, con tutte le sue diverse sfaccettature, possa fare solo del bene.