A rendere “Felix” questo angolo di Campania, noto tra gli antichi come “ager falernus”, non è un paesaggio fatto di morbide colline costellate di cascine, di torrioni medioevali, di un susseguirsi ordinato di filari di cipressi e balle di fieno. Qui la bellezza nasce e si alimenta di qualcosa di diverso, di ancestrale, di primigenio, dal connubio tra un territorio che trabocca storia antica e un agro che produce alcune tra le maggiori eccellenze della nostra Penisola. Primo fra tutti proprio quel vino che, secondo la tradizione tramandata da Silio Italico, fu un dono del dio Bacco al vecchio Falerno, coltivatore delle pendici del Monte Massico, la cui umile tavola, resa opulenta da mele, frutti dell’orto, latte, miele e doni di Cerere – leggi cereali, mancava tuttavia del giusto corredo “liquoroso”. E fu così che, per volere del dio, uno sconosciuto liquido rosso traboccò istantaneamente dai rudimentali bicchieri di legno del contadino, e all’improvviso le pendici del monte si coprirono di vigneti carichi di grappoli succulenti.
Così nasce il luogo dove ci troviamo, in compagnia di Angelo Pagano, nel più grande tra i vigneti dell’azienda, in località Carinola, 13 ettari di viti rigogliose di aglianico, piedirosso e falanghina, incorniciate da 450 piante di ciliegio, 500 olivi e qualche fico qua e là da cui, mentre chiacchieriamo piacevolmente, rubiamo qualche frutto, prima che lo facciano le api.
Qui, a circa 300 metri di quota, il riferimento alla antica genesi del Falerno è palpabile. Ad orientarsi, tre punti cardinali, anziché quattro: da un lato il Monte Massico, dove il dio Bacco trovò ospitalità nella capanna di Falerno; a poca distanza, 5 chilometri in linea d’aria, il mare, con il promontorio di Gaeta e le isole Pontine a vista, nelle giornate più limpide; più o meno dalla parte opposta il vulcano spento di Roccamonfina. Il tutto, per un terroir caratterizzato da suoli vulcanici, brezze marine ed escursioni termiche, per una sintesi di mineralità, sapidità, profumi complessi che ci aspettiamo di ritrovare nel bicchiere.
Ma prima di lasciarci distrarre dal dono di Bacco (mai l’espressione è più appropriata come in questo luogo!), ci lasciamo raccontare da Angelo come le recenti vicende abbiano influito sulle dinamiche aziendali, scoprendo che anche per Fattoria Pagano, come per altre aziende (certamente non tutte), le limitazioni dettate dalla pandemia abbiano dato vita a nuove scelte commerciali, prima fra tutte l’avvio del canale on-line per le vendite a privati. Sul fronte internazionale, se rallentamenti e sospensioni sono stati all’ordine del giorno, la cantina ha registrato un buon esordio in nuovi mercati, come la Corea del Sud, e anche per quantitativi significativi, come nel caso del Giappone. Segnali, questi, che non manchiamo mai di dare, convinti – per DNA – che nelle crisi si celi sempre qualche opportunità.
Torniamo al vino e alla sua genesi, troppe sarebbero le citazioni di poeti antichi, per non trascurarne nessuna… ma Fattoria Pagano ci prova e ci riesce, ospitando, su ogni etichetta, le “recensioni” del Falerno dei più quotati poeti latini.
Partiamo dal Fabula e dal Pectus, due falanghine di carattere, molto diverse tra di loro: la prima, frutto di una criomacerazione di 2 giorni, soffice pressatura e fermentazione in acciaio per 60 giorni, la seconda, riserva, non in senso calcistico, che nasce da una fermentazione e una maturazione in barrique per 6 mesi. A dispetto delle sensibili differenze di processo, entrambe hanno i tratti necessari per essere longeve: l’una di maggiore freschezza ed immediatezza, l’altra dotata di maggiore complessità, con un’escursione che va dalla vaniglia alla buccia di limone. E con la scusa dell’abbinamento di territorio abbiamo apprezzato anche una ricotta freschissima e una mozzarella di bufala, anch’essa di poche ore, entrambe da guinness!
Se Falerno bianco è sinonimo di Falanghina, nel Massico Aglianico e Piedirosso la fanno da padrone per i rossi: nei calici ora abbiamo Gaurasi e Angelus, entrambi con 80% Aglianico e 20% Piedirosso, ma l’uno frutto di un periodo in solo acciaio, con risultante di frutta rossa matura e freschezza minerale; l’altro, prodotto solo nelle migliori annate, affina in barrique per 18 mesi e almeno 2 anni in bottiglia, per un avvolgente risultato di terziari, dal tabacco, alla cioccolata alla liquirizia, un vino che richiede tempo, nemico della fretta, un “vino da camino”, per dirla con Angelo.
Autentica testimonianza di quanto di storico, mistico e misterioso ci sia nel vino, il Massico si allontana lentamente, ma solo dal nostro retrovisore, mentre rimane con noi la suggestione del luogo, del vino e dell’uomo che, erede di Falerno, ne custodisce il sacro fuoco.