Anche quest’anno, l’Italia del vino si è presentata a ProWein senza dare chiari punti di riferimento nazionali o territoriali. L’esatto contrario di quanto hanno fatto tutti gli altri Paesi produttori presenti alla fiera di Düsseldorf.
Ormai non si tratta di un caso ma di una “scelta” fatta molti anni fa che ha portato nel tempo l’Italia del vino ad evidenziare maggiormente i brand privati anziché quelli della nazione in generale (come ad esempio fanno il Cile, la Spagna, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa, tanto per citare i più importanti) o delle denominazioni come fa la Francia.
Nei tre padiglioni di ProWein (15,16 e 17) dove erano presenti le oltre 1.400 aziende italiane c’erano sì alcune aree territoriali aggregate (es. Trentino, Alto Adige, ecc.) e alcuni Consorzi di tutela con i loro associati, ma in maniera decisamente meno identitaria e riconoscibile rispetto alle altre regioni produttive internazionali.
A distanza di molti anni, viene però da chiedersi se tutto ciò sia stata una scelta o invece, come spesso accade nel nostro Paese, un’inevitabile conseguenza della cronica assenza di una regia della promozione del vino italiano nel mondo.
Difficile non propendere per questa seconda ipotesi, dal momento che tutti i Paesi sopra citati hanno un’istituzione centrale che governa la presenza delle loro aziende e denominazioni nelle manifestazioni internazionali.
Da noi ognuno va per conto proprio, con una propria strategia (si fa per dire) e alla fine si ha la sensazione che il principale driver della presenza italiana agli eventi internazionali sia la tipologia di finanziamento che si è utilizzata per poter partecipare a costi più ridotti.
Attenzione: non ho nulla contro i finanziamenti pubblici, non faccio nessuna demagogia in tale direzione, ma questi dovrebbero essere degli strumenti e non dei driver di scelta.
Prima ci dovrebbe essere un progetto “italiano” per la promozione dei nostri vini nel mondo e poi l’individuazione degli strumenti di finanziamento più opportuni.
E invece si ha la sensazione che, se esistesse una misura comunitaria che prevede un cofinanziamento della partecipazione ad una fiera a patto che si scriva sullo stand a caratteri cubitali “Calimero”, improvvisamente avremo molti allestimenti con l’effige del pulcino nero.
Ma al di là di quelle che possono essere le valutazioni di questo approccio comunicativo anarchico del sistema vino Italia, il risultato (e questa è una certezza oggettiva) è la difficoltà di orientarsi nei padiglioni italiani.
Nonostante i padiglioni fossero solo tre, quindi molti meno rispetto a quelli di Vinitaly, ci ho messo quasi tre giorni a capire bene la dislocazioni delle diverse aree italiane. Negli altri padiglioni internazionali, invece, per me è stato facilissimo orientarmi ( sia in Francia che in Spagna, Cile e così via). Tutti avevano un desk “nazionale” o quanto meno della denominazione (es. Rioja) che era in grado di darti perfette informazioni sulle diverse aziende espositrici, ma anche sulle caratteristiche di ogni specifico territorio.
Qualcuno potrebbe obiettare che, soprattutto nel caso delle fiere b2b come ProWein, deve prevalere il business aziendale e quindi sono le imprese con i loro brand le vere protagoniste.
Nulla da eccepire, ma questo dovrebbe sottointendere che tutti i buyer, i media, gli opinion leader che entrano in questa tipologia di fiere siano perfettamente in grado di orientarsi, di conoscere bene tutte le aziende e il loro territorio di appartenenza.
È chiaramente scontato che non è così. Se dovessimo raccontare di quanti visitatori ci hanno detto che i padiglioni italiani sono i più difficili da decifrare potremmo scrivere un libro.
Senza contare, come ho già sottolineato in altri articoli dedicati al ProWein, che sono numerosi gli stand italiani che addirittura riportano il brand dell’ATI (Associazione Temporanea di Impresa) attorno al quale si è costituita un’aggregazione di produttori che hanno potuto beneficiare di una qualche forma di finanziamento. E spesso questo brand era più grande di quello dell’azienda stessa.
Insomma, la mia speranza è che presto si possa finalmente quanto meno ragionare su una strategia comune di promozione del vino italiano nel mondo.
Ma pur riconoscendo che la speranza è l’ultima a morire, ho la sensazione che avranno più opportunità di vedere realizzato questo sogno i miei figli rispetto al sottoscritto.