Adamo ed Eva: maschile e femminile. 

Comincia così, parlando dei due noti progenitori della specie umana e rappresentativi di due sessi (maschile e femminile), un interessante articolo a firma del noto giornalista ed esperto di vino Robert Joseph, che avanza in modo molto provocatorio la questione dell’identità di genere applicata al vino. Al giorno d’oggi è forte il dibattito su questi nuovi descrittori che identificano i generi, per fare alcuni esempi genderfluid, transgender e non binary. Ci sembra rigorosa questa premessa dal momento che Jospeh tira in ballo proprio il termine “non binario”, ovvero tutte quelle identità di genere che sono al di fuori del cosiddetto binarismo di genere, ovvero non strettamente e completamente maschili o femminili. Ora, applicare questo delicato dibattito sociale al mondo del vino ci appare quanto mai interessante e provocatorio allo stesso tempo. 

“Ricordo chiaramente un’affascinante vecchia signora, Madame Ferret, che negli anni Ottanta, parlando di due esemplari di Pouilly-Fuissé provenienti da terreni molto diversi della sua tenuta, fosse intenta a spiegare come ognuno avesse un carattere che era influenzato dal calcare, granito o argilla su cui venivano coltivate le uve” racconta Joseph. Il modo in cui Madame Ferret indicava il vino era tutt’altro che insolito a quei tempi soprattutto in Borgogna, e in Francia è ancora sorprendentemente attuale. Quasi quattro decenni dopo, Dico du Vin, “le Dictionnaire du Vin en Ligne”, racconta ancora in modo utile: “È comunemente accettato che alcuni vini, indipendentemente da chi li ha prodotti, siano più femminili e che altri possiedono qualità normalmente attribuite agli uomini”. Definendo così “un vino maschile si definisce potente, robusto, corposo… con più corpo e tannini. Al contrario, un vino femminile è più rotondo, morbido, sottile, elegante e di facile beva”. 

Ma c’è di più. Oggi si fanno strada anche nuovi termini per rispondere a sempre più complesse questioni di genere. “Come ho appreso da una recente tavola rotonda su punchdrink.com, “Nonbinary” è un termine oggi usato da un wine bar di New York per descrivere vini che non sono né rossi né bianchi. È stato adottato anche da Cult Wine, un rivenditore di Auckland, in Nuova Zelanda, specializzato in vini naturali”.

C’è qualcuno che trova offensivo l’uso di questi termini. Eryka V, Global director of culture and community di Blue Bottle Coffee, Oakland, ha detto alla tavola rotonda di punchdrink.com: “Usare non binario per descrivere qualcosa che è ‘diverso’ o ‘altro’ è violento e dannoso. Dovremmo tornare al neutrale”. Robert Joseph si trova d’accordo con questo punto di vista, dichiarando di non aver mai amato la distinzione tra maschile e femminile per il vino. 

Al di fuori dell’uso dei generi l’uso dei descrittori del vino ha sconfinato anche in linguaggi ancora più azzardati, come paragonare il vino con esperienze (“bere quel vino è come guidare lungo l’autostrada con il vento che mi scompiglia i capelli”) oppure con star del cinema. 

Il processo per descrivere il vino è sicuramente complesso e cambia nel tempo e spesso è la fantasia a farla da padrone. “Per usare una famosa frase di Frank Zappa, è come danzare sull’architettura, e la coreografia cambia sicuramente nel tempo. Negli anni ’80, gli scrittori di vino britannici usavano termini come “racy”, “breed” e “grip” che sono caduti in disgrazia, e dubito che i degustatori francesi più giovani siano pronti come i loro antenati a paragonare il vino al pizzo” conclude Joseph. I consumatori di vino di oggi capiscono termini diversi come “funk” o “minerale”. 

“Nel corso dei prossimi 20 o 40 anni, spero inoltre che l’uso di termini di genere sia caduto in disuso” conclude il giornalista. E noi non possiamo essere più che d’accordo.