È stato recentemente riconfermato alla vicepresidenza del Comité Européen des Entreprises Vins (CEEV), l’organizzazione che raccoglie le associazioni dei produttori vitivinicoli di tutta Europa (23 organizzazioni in rappresentanza di migliaia di imprese che esprimono oltre il 90% dell’export europeo di vino).
Lui è Domenico Zonin, 43 anni, precedentemente presidente di Unione Italiana Vini e presidente della storica azienda di famiglia vicentina.
A lui abbiamo chiesto di spiegarci i prossimi obiettivi a livello europeo dell’organizzazione soprattutto sui temi più caldi del momento, ma anche di darci una visione generale dell’export italiano ed europeo nel mondo.
Quali sono gli obiettivi della nuova presidenza CEEV?
Abbiamo davanti impegni molto importanti per il futuro della vitivinicoltura europea. Abbiamo costruito, in questi ultimi anni, una presenza del nostro Paese nelle sedi internazionali che oggi ci permette una interlocuzione diretta con i centri decisionali della politica ormai spostati su Bruxelles. Due sono i principali dossier che oggi attendono il rinnovato board di presidenza del Ceev, due le prossime partite da giocare: la rettifica del sistema autorizzativo che rischia di ingessare lo sviluppo produttivo mettendo a repentaglio la conquistata competitività dei vini europei e la grande sfida della PAC post-2020.
Può spiegare meglio la questione legata all’OCM?
L’OCM vino è una misura chiave per la promozione, permette di fare investimenti e aumenta maggiormente la competitività.
La battaglia sul budget che la Comunità Europea riserverà all’agricoltura, ed al vino in particolare, è decisiva, e ci dobbiamo arrivare con un Comitè Vins forte e compatto. Bisogna lavorare duramente perché venga mantenuto l’OCM vino, che così come è oggi funziona bene in Europa e serve molto alle aziende per competere nei Paesi importanti del mondo.
E la seconda partita?
Riguarda le autorizzazioni che in questo momento rischiano di bloccare il sistema produttivo. È stato messo un limite dell’1% ai vigneti: questa percentuale va ritoccata. Questo attuale sistema è rigido e ci fa perdere superficie vitata.
Quali sono a suo avviso le maggiori criticità in fatto di promozione del vino italiano nel mondo?
Il settore soffre di due criticità in questo momento: in primo luogo il grande successo degli spumanti, trainati dal Prosecco, non va di pari passo ad una crescita dei vini fermi; in secondo luogo la difficoltà ad affrontare i mercati che cominciano a mostrare potenzialità importanti, come la Cina. In questi mercati il nostro vino non è aiutato dalla ristorazione italiana e dalla distribuzione e dunque risulta sempre più necessario sviluppare strategie di promozione moderne e di impatto.
Cosa propone?
Prima di tutto, per sviluppare strategie di impatto, è inutile andare singolarmente, non basta. Dobbiamo andare in gruppo e fare rumore. L’Italia non ha esperienza di programmi di promozione sistematica perché soffre una carenza a livello istituzionale. Siamo sempre andati divisi per consorzio, Provincia, denominazione, ma mai tutti assieme.
La parte privata è carente poi perché non ha la mentalità di sensibilizzare la parte istituzionale a fare le cose in modo serio e con dimensioni importanti.
Da chi potremmo imparare?
Dai francesi, ma anche dai cileni o dagli australiani. Noi siamo gli ultimi della classe in questo senso.
È un problema culturale, di mentalità, in primis, e di diversificazione. Purtroppo la grande varietà non ci aiuta.
Quale Paese del “nuovo mondo” fa già paura all’Europa nella competitività?
Se guardiamo le statistiche a volte è davanti l’Australia, altre il Cile, o la California, la Nuova Zelanda, il Sud Africa.
Sicuramente i californiani sono molto competitivi e lavorano bene, ma sono viziati e saziati da un buon mercato interno, per ora, e tendono a stare a casa loro.
Se guardiamo bene, tutti questi Paesi hanno caratteristiche simili: sono più semplici, hanno vantaggi produttivi, la viticoltura è nata per il mercato, non per l’autoconsumo come da noi.
Le aziende hanno dimensioni medie più grandi, è più semplice lavorare, ma più noioso dal punto di vista del consumatore: non hanno storia, varietà e si assomigliano un po’ tutti.
Qual è il suo consiglio finale, in base alla sua esperienza diretta?
La storia che abbiamo è un vantaggio per noi. La dobbiamo portare sui mercati in modo un po’ più semplice, con una regia comune e non in ordine sparso. Rinunciamo a lavorare solo per noi stessi, ma prima di tutto per le denominazioni e la reputazione del vino italiano.