I mercati cambiano, velocemente, e la cosa di cui a volte dobbiamo preoccuparci è che cambiano più velocemente di noi. Un atteggiamento tipico dell’export manager medio di fronte ad un problema di mercato, è applicare i modelli che in passato hanno funzionato bene. Soluzioni che appaiono sicure e affidabili; se hanno funzionato bene sino ad oggi e in moltissimi casi, non si vede perché non continuare ad utilizzarle. Ecco: non è più possibile. Modelli perfetti nel 2008 sono perfettamente inutili nel 2018, se non addirittura dannosi.
2008-2018: mi sono chiesto cosa è cambiato in questi 10 anni in Giappone, Paese che frequento già da molto tempo da consulente per le aziende del vino italiane in Asia.
1. Il mercato frammentato. Nel 2008 entrare nel mercato Giapponese era un processo lungo e faticoso; decine di contatti, negoziazioni, trattative. Alla fine del percorso si iniziava a lavorare con un grande ed importante marchio, che assicurava volumi, continuità, crescita lenta, ma costante, sicurezza economica. Gli attori sul mercato erano pochi, grandi, potenti e gestivano tutto. Difficili e lunghi da conquistare, ma poi ne sarebbe valsa la pena.
Nel 2018 gli stessi importatori protagonisti ci sono ancora, ma si spartiscono il mercato con centinaia di piccoli, a volte piccolissimi soggetti; persone talvolta preparatissime, ma che gestiscono mini o micro business. Il risultato è che i grandi sono sempre meno aperti a nuove introduzioni, tendono a diventare commercialmente aggressivi e a mantenere il controllo usando la loro potenza economica e di scala.
I piccoli e nuovi si ritagliano mercati di nicchia, vendendo a ristorazione di nicchia e ultra specializzata. Sorprenderebbe molti cenare in ristoranti di Tokyo nati negli ultimi dieci anni (e parliamo solo di Italia): ristoranti sardi che si riforniscono di carciofi sardi per via aerea, propongono una fregola meravigliosa e servono Vermentini di produttori poco conosciuti persino in Italia. Il risultato è il punto successivo.
2. La scoperta dei vini “nuovi”. Nel 2008 non era semplice proporre denominazioni che non fossero internazionalmente davvero ben conosciute. Certo i Giapponesi le conoscevano, loro amano i dettagli ed in genere conoscono tutto, ma pensavano il mercato non le avrebbe recepite.
Nel 2018, con i piccoli e piccolissimi importatori arrivati sul mercato, la situazione in questo senso è molto più aperta. Quindi produttori italiani in grado di offrire denominazioni ben conosciute e in quantità ancora con i grandi e storici importatori. Piccoli produttori di vini di ottima qualità, con l’opportunità di entrare in questo mercato. Con una grande decisione da prendere però: l’investimento necessario.
3. L’occidentalizzazione (in peggio) delle “business manners”.
Nel 2008 una stretta di mano era un contratto. Un impegno in termini di quantità e tempi veniva onorato anche a costo di riempire i magazzini di prodotti invenduti.
Nel 2018, dopo decenni di rapporti con culture manageriali di tutto il mondo, anche il Giappone ha ormai pensato di adeguarsi. Con un risultato però non certo piacevole. Unendo la loro tipica freddezza con un allentarsi del “rispettare un accordo ad ogni costo”, si ottiene una miscela piuttosto difficile da gestire. In pratica pensano solo ed esclusivamente al profitto dell’azienda, come facciamo anche in occidente, ma senza quel tocco umano che invece caratterizza noi, che siamo comunque sempre attenti ai rapporti interpersonali. Solo una cosa fortunatamente sopravvive: sono ancora i più corretti e precisi pagatori del mondo; accordatevi su un termine e condizione di pagamento e sarà rispettato, troverete il bonifico sul conto il giorno esatto della scadenza.
4. La burocrazia (finalmente una buona notizia). Nel 2008 i documenti necessari per importare il vino in Giappone erano tanti, costosi, da ripetere ad ogni spedizione. L’errore era sempre dietro l’angolo, e la merce ferma in dogana al porto di Yokohama una cosa che accadeva anche troppo di frequente.
Nel 2018 le cose sono cambiate parecchio: poche analisi (essenzialmente non vogliono l’acido sorbico e che la solforosa sia bassa, e poco più), da non ripetere se l’annata è la stessa, e pochi altri documenti.
Un accordo è stato firmato lo scorso dicembre tra UE e Giappone. Dopo le pratiche burocratiche di attuazione, il Free Trade Agreement entrerà in vigore agli inizi del 2019. Il Giappone a regime eliminerà i dazi sul 94% dell’import europeo (82% nel settore agricolo e quindi anche vinicolo), mentre la Ue, in particolare, toglierà nel giro di otto anni i dazi all’import di autovetture made in Japan. Non si hanno ancora i dettagli specifici al nostro comparto, ma sicuramente la cosa è molto interessante per chi esporta vino in quel paese.
5. La facilità del viaggio. Nel 2008 solo la principale linea di metropolitana di Tokyo, la circolare Yamanote, aveva indicazioni sui treni in inglese (ma non annunci ovviamente). Per il resto bisognava affidarsi a sistemi tipo contare le fermate, non esisteva modo di avere una scheda SIM giapponese, e quasi nessuno parlava inglese.
Nel 2018 è tutto fortunatamente molto diverso. Da quando il Giappone è stata eletto sede delle olimpiadi 2020, ora tutti i ristoranti hanno un menù anche in inglese, così come le indicazioni di tutte le linee della metropolitana di Tokyo. All’aeroporto troverete distributori automatici di SIM card con accesso dati, e tantissimi hanno iniziato a parlare un comprensibile inglese. Insomma un altro mondo. Sembra poco, ma non lo è affatto. Ora un viaggio di lavoro in Giappone è semplice quasi come in una qualsiasi nazione occidentale (dal punto di vista pratico).
Cinque punti, ma non ancora tutti i suggerimenti. Alla prossima puntata del viaggio in Giappone li condividerò con voi.
ROBERTO BOSTICCO
I mercati asiatici sono la sua passione, per cui ha spostato il centro del suo mondo sempre più ad est. Dall’Italia si è spostato a Praga, dove vive oggi, e da cui parte per i suoi numerosi viaggi in Giappone, Cina, Corea… Lui è Roberto Bosticco, consulente senior per aziende vinicole italiane all’estero, è uno dei tanti italiani che vivono fuori dal Belpaese, ma che portano alta la bandiera del vino italiano nel mondo.