Ci ha colti un po’ di sorpresa il dato semestrale del nostro export vitivinicolo negli Usa. I primi segnali di quest’anno ci sembravano all’insegna dell’ottimismo invece i dati arrivati in questi giorni ci disegnano una situazione ben diversa con un preoccupante zero sul versante del volume e solo un più 3% in termini di valore. Dati decisamente poco incoraggianti e che diventano ancor più preoccupanti se osserviamo quanto fatto dalla Francia nel medesimo periodo dove hanno registrato un più 17% a volume e ben +24% a valore.
Di fatto si tratta di una performance, come evidenziato dall’Osservatorio Paesi Terzi di Business Strategies, che riporta la Francia, dopo ben 16 anni, praticamente alla nostra stessa quota di mercato (33,5% vs 33,3%).
Secondo Silvana Ballotta, Ceo di Business Strategies, la responsabilità di questo preoccupante calo che rischia di farci perdere la leadership faticosamente conquistata sul mercato Usa, è da ascrivere anche alla debolezza dei nostri strumenti di promozione che “vanno a rilento affossati da burocrazie ed incertezze mentre quelli transalpini – che sulla carta sarebbero gli stessi – funzionano benissimo e il risultato è che dopo 16 anni i francesi ci hanno agganciato nel primo mercato al mondo, recuperando in 8 mesi oltre 130 milioni di euro”.
Su quest’analisi di BS concorda anche Carlo Flamini, direttore responsabile de Il Corriere Vinicolo, lo storico settimanale di Unione Italiana Vini, che commentando i dati del primo semestre negli Usa ha scritto:”La cosa più evidente successa in questo ultimo anno è la problematica Ocm promozione: il blocco burocratico di decreto, bandi, i ricorsi e controricorsi sulle graduatorie hanno di fatto immobilizzato la macchina promozionale italiana, con 100 milioni di euro di finanziamenti tra coda 2016 e annualità 2017 congelati nei cassetti, a cui si aggiungono i 100 messi dalle imprese”.
Sempre Flamini, però, ricorda come anche altre cause stanno probabilmente condizionando lo sviluppo del mercato Usa come, ad esempio, l’effetto imbuto scaturito dai processi di fusione che hanno interessato recentemente il segmento della distribuzione, a partire dal matrimonio tra i colossi Southern e Glazer’s, che sta generando ripercussioni sul portafoglio prodotti delle due società, con duplicazioni e sovrapposizioni a cui lentamente si sta dando una riorganizzazione. Come pure probabilmente una certa influenza sul mercato statunitense è scaturita dalla crisi dei cosiddetti independent fine wine retailers, in forte sofferenza per l’arrembaggio delle piattaforme di e-commerce e soprattutto del direct-to-consumer shipping, che stanno aprendo crepe nello storico sistema a tre livelli americano.
Tutte problematiche, però, che però stanno oggi condizionando di fatto solo il nostro export e quindi inevitabilmente vanno cercate all’interno del nostro sistema vitienologico le principali motivazioni di questa brusca frenata nel mercato Usa.
Noi abbozziamo alcune nostre ipotesi. Innanzitutto è bene ricordare che quest’ultimo quasi decennio di drammatica crisi economico-finanziaria ha sicuramente colpito maggiormente la Francia, storicamente dotata di un impianto prezzi, delle loro principali denominazioni, molto meno flessibile di quello italiano (e si tratta di un eufemismo). Sicuramente la nostra maggiore “flessibilità” (spesso al limite del possibile) ci ha portato a reggere di più l’urto della crisi almeno sul fronte dei volumi. Basti pensare, come riportato sempre dall’Osservatorio Paesi terzi di BS, che sempre in questo primo semestre il prezzo medio del vino francese importato negli Usa è stato di 9,7 euro al litro, contro i nostri 4,9 euro.
Probabilmente, quindi, il recupero dell’economia di quest’ultimo anno sta consentendo più consumatori americani a rivedere nel vino francese un prodotto oggi più abbordabile alle loro tasche.
Ma l’aver presidiato meglio, con maggior coraggio, il proprio posizionamento anche in fasi di crisi, rimane comunque una strategia sempre vincente sul medio-lungo periodo.
Ma questa, come ben sappiamo, non è una strategia che appartiene, purtroppo, a gran parte del nostro sistema vitivinicolo che notoriamente e storicamente è più incline a modelli speculativi.
E quest’ultimo aspetto è efficacemente dimostrato dal confronto delle dinamiche di sviluppo dell’offerta enologica francese rispetto alla nostra. E su questo fronte, come giustamente ha scritto sempre Flamini, il confronto diventa impietoso.
Per il Bordeaux, infatti, si evidenzia un +12%, per i Vin de Pays rossi +21%, ed in generale tutte le “appellazioni” rosse francesi registrano uno straordinario +46%. Ma crescite notevoli registrano anche Rodano (+9%) e Languedoc-Roussillon (+19%). Di fatto solo la Borgogna rimane sostanzialmente stabile.
A fronte di queste crescite complessive dell’offerta francese noi vediamo perdite ingenti (-25,3% a volume e -29,3% a valore) della categoria Veneto bianchi dop comprendente due “colossi” come il Pinot Grigio e lo storico Soave. Su questa tipologia si salvano i bianchi friulani e trentini con un +59,2% a volume e un +34,5% a valore (una crescita a volume però sacrificata sul fronte del prezzo medio a bottiglia sceso da 4,62 euro a 3,90 euro al litro). Tra i rossi calo delle dop toscane (-7,9% a volume e -2,4% a valore). Crescono, invece, i rossi dop veneti del 7% a volume e del 10,2% a valore, grazie in particolare alla pattuglia veronese di Amarone, Ripasso e Valpolicella. Praticamente ferme tutte le altre dop rosse italiane comprese quelle piemontesi (che però registrano un +4,2% a valore).
Quest’analisi, pertanto, evidenzia come il successo del vino italiano è ancora oggi fortemente concentrato in poche mani, Amarone, Prosecco e pochi altri e questo non può non destare forte preoccupazione.
Per questa ragione ci permettiamo di non considerare l’attuale paralisi sul fronte ocm vino – pur riconoscendo che si tratta di un fatto tutt’oggi assolutamente grave e ingiustificabile – una “scusa” sufficiente da sola per giustificare il nostro rallentamento sul mercato Usa anche perché, è bene ricordarlo, almeno per quanto concerne l’annualità 2017 le azioni sono ancora coperte dal precedente bando.
Legittimo, però, domandarsi se i circa 500 milioni di euro (che significano quasi un miliardo di euro di attività) finora spesi nell’ambito delle misure dell’ocm vino promozione paesi terzi, dal 2009 ad oggi siano stati utilizzati in maniera adeguata per rafforzare il nostro made in Italy enologico nel mondo, a partire proprio dagli Usa. Considerando che Francia e Spagna hanno avuto una dotazione decisamente più bassa della nostra la domanda diventa ancor più importante.
Qui le riflessioni sarebbero molte ma noi ci limitiamo a sintetizzarne alcune.
E’ fuor di dubbio che la nostra promozione si è concentrata quasi totalmente su azioni “tattiche” da parte delle singole imprese: della serie “diamo soldi ai nostri importatori che sanno loro cosa fare…”. Abbiamo visto, quindi, pochi progetti strategici e strutturali capaci di consolidare il nostro presidio sui mercati internazionali.
Le cosiddette azioni di promozione delle nostre denominazioni, per aumentare la loro visibilità e soprattutto conoscenza, si possono dichiarare praticamente “mai pervenute”.
Si è fatta la scelta di agevolare in tutti i modi le azioni promo-commerciali delle imprese – del tutto legittimo per carità – ma poi non possiamo lamentarci se gran parte delle nostre denominazioni nel mondo risultino tutt’oggi pressoché sconosciute.
Per il momento ci fermiamo qui, ma a breve torneremo su un tema così importante per il futuro del nostro settore vitivinicolo.

Il vino italiano perde quota negli Usa tutta colpa dellocm?
Nel primo semestre 2017 il nostro export negli Usa è rimasto al palo in termini di volume ed è cresciuto solo del 3% in valore, mentre la Francia nel medesimo periodo è cresciuta del 17% a volume e del 24% a valore di fatto raggiungendo la nostra stessa quota di mercato. Alcuni commentatori vedono nei ritardi di applicazione del nostro ocm vino tra i principali motivi di questo nostro calo, qui proviamo ad individuarne anche altri