Nei giorni scorsi abbiamo appreso della morte di Gualtiero Marchesi e sono scrosciati giù i ricordi del Maestro, rievocati da decine di allievi orfani ormai della sua arte culinaria e dei suoi saggi insegnamenti di vita.
Tanti sono accorsi ad accaparrarsi un microfono ed una inquadratura per rivendicare un pezzo di vita del grande Gualtiero Marchesi, fondatore della moderna cucina italiana. Hanno scritto o detto dell’adolescenza con i genitori albergatori in Milano, degli studi in Svizzera, del primo periodo milanese e poi del lungo soggiorno formativo in Francia, ormai già maturo con moglie e figli. Infine il ritorno e l’inizio della nuova avventura milanese in Bonvesin de la Riva con il traguardo raggiunto in pochi anni – primo in Italia- delle tre stelle Michelin.
Pochi hanno ricordato dell’incontro con Vittorio Moretti – Mattia Vezzola ‘facilitatore’ – che spalancò a Gualtiero le porte dell’Albereta che per lunghi quindici anni è stata la sua casa: il luogo dove la sua ‘visione’ prese una forma compiuta. Per chi, come me, l’ha conosciuto, assistito sempre dall’inseparabile moglie Antonietta, in quel luogo, tutti i ricordi dei suoi piatti, dei suoi libri e delle nostre conversazioni rimandano sempre a quel tempio del bello che diventò, grazie alle sue magie, l’Albereta. Senza l’Albereta noi tutti racconteremmo di un altro Marchesi, perché quegli anni sono stati i più fecondi per le sue creazioni, lo spazio virtuoso dove si è dispiegata nella maniera più ispirata ogni piega del suo immenso talento.
Non c’è dubbio che la particolarità di Gualtiero Marchesi – come direbbe il sociologo De Masi – è stata la rara fortuna di sperimentare personalmente, nell’arco di una vita, la condizione umana di tre epoche: quella rurale (cucine a fuoco a legna, economiche), quella industriale (cucine elettriche ed a gas), e quella post-industriale (induzione e sottovuoto). E di averle attraversate con diletto e rigore, gioco, divertimento e scienza senza mai rinunciare alla felicità di una passione, la cucina, che attraverso una singolare visione creativa partisse appunto dal rurale e giungesse al post-industriale trasformando le brigate da lavoratori freddi e strumentali in gruppi caldi espressivi e giocosi.
Dunque chi è stato davvero Gualtiero Marchesi? Innanzitutto un leader carismatico impegnato senza sosta nella sua missione: traghettare a suon di ingredienti e ricette la stanca cucina italiana ancora influenzata da canoni ottocenteschi verso la contemporaneità. Quando mi guidò nella visita della sua mostra al castello Sforzesco di Milano nel 2010, fu impareggiabile perché d’un colpo mi furono chiare le sue motivazioni di ‘leader’. Nel congiungere in una catena di esperienze le tante tappe della sua vita mi fu chiaro dapprima che in lui albergava la consapevolezza di essere un capo carismatico perché dotato di una ‘sua’ visione della cucina, mi rivelò poi il forte sentimento di fare una scuola, ma con la passione pedagogica di un antico maestro greco, piuttosto che di un precettore moderno ed infine mi confessò, senza nascondere una vena di amarezza, che un vero capo deve essere pronto ad affrontare anche l’insuccesso che deve vivere facendo leva sulla sua tolleranza.
Ripercorremmo, in seguito, negli incontri che diventavano sempre più sporadici, le cosiddette tappe salienti della sua vita e con grande stupore mi toccò registrare che al primo posto dei suoi interessi rimaneva sempre lo studio dell’arte, quella contemporanea, la più complessa, ovvero quella astratta e poi la musica affascinato com’era più dalle dissonanze che dalle armonie. Ed il tutto serviva a ravvivare l’ispirazione dei suoi splendidi piatti a cui aggiungeva il tocco personale del suo ‘design’. Fino all’ultimo ha continuato a creare ed il suo cruccio maggiore era l’apparente isolamento in cui certa critica gastronomica l’aveva relegato, lui sempre pronto a cimentarsi in nuove ed originali proposte gastronomiche. Ma non perdeva il suo proverbiale umore né rinunciava alla sua pesante ironia che spesso sfiorava il sarcasmo.
L’ultima volta che l’ho visto al Marchesino dove ha voluto farmi assaggiare ancora una volta il suo risotto con la foglia d’oro mi ha salutato con un sorriso ricordando la massima di Eraclito: Il tempo è un fanciullo che gioca. Addio Maestro.