“Bisogna lavorare sulla brand awareness. Diventa necessario creare un appeal attorno al prodotto, per far sì che questo diventi cool, accettando anche la possibilità, che, in prima battuta, le strategie non convertano niente all’inizio”.

Ciro Buccolieri – Manager, talent scout, CEO e co-fondatore dell’etichetta discografica Thaurus – ha condiviso con noi le caratteristiche del suo lavoro, trovando anche qualche punto in comune con il mondo del vino.

Che cos’è Thaurus? Da dove è nata la tua attività di business?

La mia propensione al management nasce da una passione che ho coltivato fin da ragazzino.
Sono sempre stato innamorato della musica in generale e di un certo tipo di musica, nello specifico: l’urban.
Questo stile, che oggi è diventato mainstream, vent’anni fa era considerato underground perché il mercato era orientato verso altri tipi di musica e in Italia, come nel resto del mondo, l’industria musicale era controllata da chi gestiva i media.
All’epoca, il lavoro di scouting era completamente diverso: si prendeva un talent, lo si inseriva nel contenitore mediatico e il cantante diventava famoso e conosciuto grazie ad un numero impreciso di passaggi radiofonici e televisivi.

Grazie all’internet era, la situazione è cambiata e la nostra idea è diventata un business. Ci siamo trovati di fronte ad una classe dirigente di manager e imprenditori che non masticavano o non comprendevano per niente il linguaggio della rete e la musica urban.
Abbiamo fiutato la possibilità di inserirci dove c’era un vuoto: mancava una figura che facesse da tramite tra le multinazionali e gli artisti che parlavano un linguaggio differente o venivano da un mondo diverso.

Così, cominciando con l’organizzazione di concerti, siamo passati alla produzione di dischi e alla loro commercializzazione.
Nel tempo abbiamo stretto una partnership con Universal e con brand importanti finché l’azienda si è sviluppata arrivando a diventare quello che è oggi.
È da tenere presente che, attualmente, l’urban totalizza il 70-80% del mercato discografico italiano.

Tu e il tuo gruppo siete stati i pionieri di questa attività?

In realtà c’è chi ha cercato di portare l’urban in risalto prima di noi.
Il mio team ed io, avendo capito le potenzialità del cambiamento in atto, quando sono cominciati ad arrivare i primi introiti, siamo stati tra i primi a cercare di sviluppare l’urban in un modo differente. Abbiamo creato una struttura che lavorasse la qualità di un’artista a 360° e che ne seguisse tutti gli aspetti: discografico, live show, concerti, eventi, editoriale, management, collaborazione con i brand.

Nella tua esperienza, quali sono state le più grandi difficoltà che avete dovuto superare per arrivare oggi al successo come gruppo di lavoro?

In qualunque aspetto economico in tutto il mondo, quando arriva un cambiamento, questo, da una parte, incuriosisce, mentre, dall’altra, spaventa.
Ci sarà un establishment di persone che, fino al giorno prima, ha fatto le cose in un determinato modo e che si sente minacciato da un modo di lavorare diverso.
All’inizio, quindi, abbiamo dovuto superare un certo tipo di diffidenza.
Però, le generazioni più grandi di noi si sono adattate e hanno accolto questo cambiamento, giovandone.
Chi è rimasto più chiuso e conservatore e non ha capito che c’era un cambiamento in atto, ne ha pagato le conseguenze.
Il modo di fare business cambia di continuo ed è sinonimo di intelligenza adattarsi e accogliere le evoluzioni e i cambiamenti. Chi lo fa ne esce rinforzato e avrà la stima delle generazioni che ti guarderanno come qualcuno che agevola, accoglie e sostiene le evoluzioni. Chi, invece, si chiude a riccio e non si adatta ai cambiamenti, tende ad essere superato e scavalcato.

Secondo te cosa significa essere un manager? Quali sono le soft/hard skill per fare questo tipo di attività?

Ci sono sicuramente dei principi cardine intorno ai quali si muove il lavoro, ma bisogna sapersi adattare alle persone che si hanno di fronte e che hanno dentro un mondo infinito di sfumature.
Per fare bene il nostro lavoro è necessario avere passione e rispettare le proprie caratteristiche. Ci sarà sempre qualcuno con skill migliori, l’importante però è lavorare secondo il proprio approccio.
Fondamentale è anche la capacità di ascoltare gli altri e di fare squadra: è necessario collaborare con persone che arricchiscono il tuo percorso e che possano anche darti uno punto di vista diverso. Il team è un tema cardine per l’approccio manageriale.
Infatti, Thaurus è un’azienda di 30-35 persone, ma ci affidiamo anche a persone esterne che ci aiutano su altri fronti.
I collaboratori esterni sono fondamentali anche per essere obiettivi, aspetto che non risulta facile quando si è troppo coinvolti. Essere coinvolti dal punto di vista emotivo non è un aspetto negativo, ma è necessario anche avere la forza di essere distaccati e di trattare il prodotto come se non ti appartenesse. Infine, molti si dimenticano dell’output, che è un elemento cruciale: Qual è il pubblico di riferimento? A chi voglio rivolgermi?
Chiaramente, di questo aspetto non si deve preoccupare l’artista, che deve invece pensare solo a produrre la musica più vera e più pura possibile affinché questa risulti credibile.
Per fare un parallelismo: se un produttore è bravissimo a produrre un vino di qualità eccezionale, è cruciale che si chieda questo prodotto a chi si rivolge, a che fascia di prezzo si vende, dove si vuole arrivare, su che tavola lo si vuole servire, in che ristorante, come deve essere fatta la bottiglia.

Vi capita di avere a che fare con artisti che faticano ad affidarsi ad un team? Quali sono le difficoltà che trovate?

Ogni artista ha il suo profilo umano, ha il suo background, i suoi traumi e le sue paure. Bisogna sempre rispettare questi aspetti.
Io sono convinto che il nostro ruolo sia quello di consigliare. Il manager non deve imporsi. Perché si tratta della carriera dell’artista e della sua vita.
Noi siamo un fattore esterno su cui ci si appoggia per raggiungere un risultato. Il nostro ruolo è quello di indicare la via migliore secondo la nostra visione, ma alla fine bisogna sempre rispettare il volere dell’artista.

A differenza del mondo urban che ha visto un cambiamento negli anni, il mondo del vino è ancora un po’ radicato, per cui ogni cambiamento comunicativo di marketing viene visto con un po’ più di diffidenza. Quale potrebbe essere un suggerimento affinché il mondo del vino si velocizzi nel cambiamento come è successo al mondo musicale?

Sono molto legato al mondo del vino. Sono cresciuto in Manduria e chiunque, all’epoca, aveva un pezzo di terra dal quale produceva vino o era coinvolto nella sua commercializzazione. Posso dire che ci sono quasi più cantine che banche nel mio paese. È una cosa che ho vissuto in maniera diretta e riguarda le mie radici, ma non conosco in maniera specifica il settore.
Però posso dire una cosa in maniera generica: sono molto colpito da come negli Stati Uniti il mondo degli alcolici abbia saputo dialogare con il mondo della musica.
Per esempio, il Crystal era uno dei brand più nominati all’interno di tutti i pezzi rap.
Jay Z si è poi reso conto di fare promozione gratuita ad un brand che non lo prendeva nemmeno in considerazione. La situazione si è ribaltata quando un marchio di champagne, l’Armand De Brignac ha coinvolto il cantante che ha cominciato a posizionarlo nella sua musica facendo dei placement nei suoi videoclip, nominandolo nelle canzoni, coinvolgendo colleghi, finché questo brand è diventato un colosso.

Quindi, è importante cominciare a pensare ad un marketing stratificato su più livelli. Molte volte, per una conversione a lungo termine, bisogna lavorare sulla brand awareness. Diventa necessario creare un appeal attorno al prodotto, per far sì che questo diventi cool, accettando anche la possibilità, che, in prima battuta, le strategie non convertano niente all’inizio.
Il Crystal ha visto il proprio dominio sul mercato essere intaccato perché nonostante fosse tra i brand più cool, non ha saputo investire sulle persone giuste. Chi invece lo ha fatto, si è creato il proprio brand, ha spinto il proprio prodotto, ha acquisito lustro e ha rubato al Crystal una grande fetta di mercato.

Hai una visione su quello che è il mondo del vino italiano oggi come esperto di comunicazione e di marketing?

L’Italia è un paese di eccellenze assolute e considerando la qualità di determinati prodotti e la biodiversità, non abbiamo niente da invidiare ai vini francesi più rinomati. Però, manca un brand di vino che sia cool per i giovani. Ci manca la capacità di rendere un vino un brand riconoscibile e su questo bisogna lavorare.