Al bellissimo Moma di New York c’è un quadro di Benny Andrews dal titolo “No More Games” (niente più giochi). L’ho scelto per la copertina di questo editoriale che scrivo in aereo di ritorno dal lungo e faticoso “USA Wine Tour 2023”.

È un quadro forte che, a mio parere, rappresenta bene gli Stati Uniti e, nonostante sia stato realizzato nel 1970, esprime ancora bene l’immagine di un Paese grande in tutto, anche nelle sue contraddizioni, nei suoi conflitti.

Il bello dell’America, e penso che sia importante ricordarlo anche quando si evidenziano i suoi tanti limiti, è che non li nasconde mai e te li spiattella in faccia senza tanto pudore.

Con altrettanta “spudoratezza” vorrei quindi cercare di raccontare, pur in poco spazio, quello che ho imparato visitando 138 cantine negli USA, percorrendo oltre 12.000 km in camper attraversando 23 diversi Stati.

Innanzitutto, ho imparato che ormai il vino negli USA si fa quasi ovunque, anche in aree vitivinicole non sempre vocate. Alcune di queste aree sono diventate “potabili” per la vitivinicoltura proprio grazie alle mutazioni climatiche che hanno trasformato zone dal clima rigido in territori dove la vite si sviluppa più o meno dignitosamente. È bene sottolineare il “più o meno” in quanto territori come l’Arkansas, il Missouri, l’Indiana, il Kentucky, tanto per rimanere nel cosiddetto Midwest, sono diventati territori vitivinicoli soprattutto grazie ad uve acquistate da altri Stati (in particolare California e Stato di Washington).

È interessante, però, evidenziare come questa “corsa al vino”, dopo un paio di secoli dalla mitica corsa all’oro, sia stata dettata soprattutto dallo sviluppo dell’interesse nei confronti del turismo del vino. Se non ci fossero gli enoturisti, tanto per essere chiari, dubito che in parecchie aree degli USA ci sarebbero cantine vitivinicole.

Gli americani sono molto pragmatici: se sviluppano un’industria è solo perché c’è un’opportunità di business. Ho parlato con qualche produttore e tanti manager del vino made in USA e nessuno mi ha citato nelle proprie scelte la “passione” o la  “storia e la cultura vitivinicola del suo territorio”. Potrei sintetizzare la motivazione della loro scelta viticolo-imprenditoriale in questa affermazione: “Vendiamo quasi tutta la nostra produzione a chi ci viene a trovare in azienda”. E credetemi, ho toccato con mano la veridicità di questa affermazione.

Quindi, indubbiamente, la cosa più importante che ho imparato negli USA è che si può produrre vino in zone poco vocate, ma questo non impedisce di vendere quasi tutta la propria produzione agli enoturisti.

Più in generale, si può affermare che il cosiddetto “DTC” (Direct to Consumer) è senza ombra di dubbio un trend in costante crescita negli USA e tutte le aziende che abbiamo visitato ci hanno confermato il loro obiettivo di “disintermediare” sempre di più le loro vendite.

Tutto ciò insegna molto anche al nostro modello vitivinicolo e, se penso che in termini di vocazionalità qualitativa battiamo gli USA 10 a 0, viene facile pensare al valore aggiunto che può avere la nostra proposta enoturistica.

Ma gli insegnamenti non finiscono qui.

Le cantine americane non vendono solo vino. Sì, ho già letto le tante obiezioni sui nostri canali social sul tema merchandising: “Si rischia di dare un’immagine sbagliata del prodotto, dell’azienda”; “Le nostre leggi non lo consentono”, eccetera, eccetera.

Affronteremo questo tema a breve in modalità più ampia e dettagliata ma possiamo per il momento almeno provare a non avere pregiudiziali ideologiche? Lo stesso vale sul tema di enoturismo e ristorazione in cantina: conosco bene le obiezioni anche su questo fronte, ma penso che chiudersi a riccio per principio sia un errore a prescindere.

Ecco, gli USA mi hanno insegnato ancora una volta che la “libertà di movimento” è una cosa straordinaria e, ovviamente, anche pericolosa. Ma evitare tutto ciò che può essere pericoloso significa smettere di essere imprenditori.

Ho imparato, e questo mi ha sorpreso non poco, che gran parte delle cantine americane se ne sbattono della comunicazione o meglio del giornalismo del vino.

Cerco di spiegarmi rispondendo ad una domanda che spesso ci è stata posta da coloro che generosamente ci hanno seguito sui social in queste cinque settimane: “Come vi hanno accolto nelle cantine che avete visitato?”. Una parte di esse, circa il 30%, sapeva chi eravamo perché avevamo preventivamente pianificato la nostra visita con il management aziendale. A tutte le altre spiegavano chi eravamo e anche gli obiettivi della nostra visita.

Il risultato di tutto ciò è che meno di una decina di aziende si è dimostrata contenta di avere giornalisti del vino a fargli visita o, quanto meno, incuriosita dalla nostra presenza. Ci hanno trattati né più né meno di un altro ospite “normale”.

All’inizio non nego che sono rimasto sorpreso, non perché mi aspettassi ponti d’oro, ma perché ritenevo che potesse essere interessante per una cantina statunitense avere un giornalista italiano che potesse recensire la propria realtà. Ma man mano che questo “disinteresse” si manifestava in quasi tutte le aziende che visitavamo, ho compreso ancora una volta il grande pragmatismo americano: se la mia azienda vive di enoturismo, quanti ospiti saranno in grado di “portarmi” questi giornalisti italiani?

In aggiunta, c’è anche il grande limite di far presentare le aziende da manager che spesso recitano un copione.

L’assenza di titolari di azienda o di manager fortemente qualificati si è fatta sentire anche nel seppur sviluppatissimo enoturismo americano. È un tema, quest’ultimo, che per noi di Wine Meridian è diventato una vera e propria mission.

Il prossimo Campus formativo sull’hospitality management che partirà il prossimo autunno verterà soprattutto sulla creazione di imprenditori e manager dell’enoturismo capaci di sviluppare al meglio tutte le potenzialità del turismo del vino, compresa anche la comunicazione.

Dopo oltre quattro anni di tour che ci hanno portato in giro per l’Italia e per il mondo, pensiamo di avere acquisito le informazioni più utili ed operative per dare un nostro prezioso contributo allo sviluppo del turismo del vino del nostro Paese. Noi ci sentiamo pronti, e voi?

USA tour wine