Siamo all’ennesima estate folle per il vino italiano. Da un lato arrivano comunicati che annunciano una vendemmia tra le meno produttive dell’ultimo ventennio e, dall’altro, l’Osservatorio Uiv-Vinitaly ci comunica una giacenza di vino in cantina pari a 45,5 milioni di ettolitri, pari a oltre 6 miliardi di bottiglie da 0,75 litri.
Se a questo aggiungiamo che abbiamo passato una primavera a discutere della necessità di una distillazione emergenziale per togliere un po’ di eccedenze e poi un’estate a piangere per l’assenza di prodotto, il quadro che ne emerge è decisamente paradossale.
Sono onesto: non voglio apparire ingenuo ma molta di questa situazione è da ascrivere ad una costante assenza di dati certi, di analisi oneste e trasparenti e, dall’altro di una volontà politica di affrontare seriamente le problematiche.
Se, infatti, proprio in questi giorni arriva dalla Francia la notizia che il Governo francese stanzierà 200 milioni di euro (all’inizio erano 160 milioni ma, vista la situazione grave, è stato incrementato il sostegno) per la distillazione “per finanziare la distruzione della produzione di vino in eccedenza nel tentativo di sostenere i produttori in difficoltà e sostenere i prezzi”, da noi la discussione rimane eternamente aperta con un susseguirsi di contrasti di visione (tra produttori e organizzazioni professionali) che non portano mai a nessuna decisione.
Sono partiti sostegni anche in Australia dove si parla, anche a causa del perdurare del blocco dell’export in Cina, di oltre 2,8 miliardi di bottiglie in giacenza.
Ma, al di là delle problematiche congiunturali, è mai possibile che un comparto così importante per l’economia agroalimentare del nostro Paese non abbia finalmente una sua politica seria di sviluppo, piani a medio-lungo termine capaci di accompagnare il settore in un’epoca che è, ormai lo dovrebbero aver capito tutti, totalmente diversa rispetto al passato?
Come si può immaginare che un comparto, che dovrebbe essere ormai ben maturo, possa definire strategie serie vivendo sempre “alla giornata”, non avendo visioni di largo respiro, analisi serie sulle quali basarsi concretamente?
Le stesse cattive notizie che arrivano dai mercati internazionali, da un export in difficoltà, non possono essere ascritte solo ad una fase congiunturale bensì ad un atteggiamento poco lungimirante, sempre all’insegna della speculazione del momento, senza un vero e proprio consolidamento delle nostre strutture produttive e commerciali.
Il tema dei dati rimane un elemento centrale e, mi dispiace sottolinearlo, ritengo che questa cronica lacuna del sistema vino Italia a dotarsi di strumenti di analisi autorevoli e seri sia da ascrivere ad una precisa volontà e non a una, seppur gravissima, negligenza.
Ma se si ritiene che “navigare a fari spenti” sia meglio di agire in trasparenza, significa che saremo sempre più a rischio considerando anche la complessità attuale e del prossimo futuro nei mercati del vino, senza dimenticare le difficoltà produttive derivanti dalle mutazioni climatiche.
Emblematica, a questo riguardo la stessa affermazione del presidente di Unione Italiana Vini, Lamberto Frescobaldi, che in un recente comunicato ha sottolineato: “Sulla prossima vendemmia – la cui paventata forte contrazione è ancora tutta da verificare…”.
Una contrazione ancora tutta da verificare? Ma come è possibile, Presidente? Come si giustificano allora le decine di comunicati che arrivano dalle denominazioni, per non parlare dei “pianti” che riceviamo da Abruzzo e Puglia, tanto per citare i due esempi più eclatanti, che ci raccontano di una peronospora che ha decimato le produzioni con conseguenze probabilmente anche per la vendemmia 2024? Per non parlare di molte zone che sono state letteralmente devastate da fenomeni grandinigeni impressionanti.
Non ho dubbi sulla buona fede del bravo Lamberto Frescobaldi, ma se se non si nutrono certezze addirittura sui quantitativi che andremo a produrre in una fase della vendemmia già avviata, dove basta guardare i vigneti per comprendere come siamo messi, questo avvalora ulteriormente la mia tesi della necessità di avere osservatori non solo credibili ma anche votati seriamente alla trasparenza.