Spesso le aziende mi chiedono progetti per entrare nel mercato giapponese, ma prima di qualsiasi passo, quello che occorre capire è se i vini hanno la potenzialità necessaria per piacere a quel mercato, come sempre molto caratteristico, in modo da poter partire sin da subito con il piede giusto. I gusti stanno cambiando, evolvendo e diventando più specifici, allontanandosi finalmente da quei gusti internazionali che non ci vedono vincitori nei mercati mondiali. Il nostro punto di forza è, e sarà sempre di più, la tipicità. Ma non solo quello che si trova dentro la bottiglia conta, anche tutto quello che c’è intorno gioca un ruolo importante. 

Facciamo quindi un piccolo test in quattro punti:

1 Storia aziendale. I Giapponesi apprezzano molto la storia, dietro un vino è sempre bene ci sia un percorso. Premesso questo, sono tre le tipologie che più li attraggono, con pari capacità di accendere l’interesse, in ordine puramente casuale. 

La prima è una storia secolare da poter raccontare; quindi antiche famiglie toscane o piemontesi, che producono vino da generazioni e generazioni, oppure tradizioni territoriali portate avanti da lunghissimo tempo (penso all’appassimento sui graticci per esempio). Ancora, poter citare almeno il bisnonno come già produttore di vino, aiuta parecchio. 
La seconda una storia di successo; ebbene si, anche in Giappone, pur nella sua apertura e cultura, una cantina che ha preso tre bicchieri per dodici annate consecutive accende un interesse decisamente maggiore di un produttore altrettanto buono, ma ignorato dalle guide. Anche avere iniziato da pochi anni, ma già avere ricevuto apprezzamenti in termini di premi e punteggi ha un buon effetto. 
La terza una storia di visione imprenditoriale; precursori, visionari, persone che si sono innamorate di un luogo, di una cultura, e ne hanno fatto un’azienda. Imprenditori che hanno visto lungo e hanno per primi iniziato percorsi, che si sono poi rivelati lungimiranti; penso ai primissimi che hanno pensato alla sostenibilità, non solo al biologico, o che hanno riscoperto zone di produzione dimenticate che si sono poi rivelate particolarmente vocate, o hanno anche semplicemente rivitalizzato una regione, elevandola e valorizzandola con un ruolo da capofila.

2 Biologico. Qualche anno fa il biologico faceva la differenza sul mercato, specialmente dopo la svolta salutista seguita al disastro di Fukushima del 2011; oggi la differenza la fa il non esserlo. La grande maggioranza dei produttori è certificata, totalmente o in parte, e non è più una particolarità che aiuti in modo sensibile. Ma il non esserlo ormai un poco penalizza, passa un immagine di azienda in qualche modo non al passo con i tempi, essendo dato per scontato che questa tipologia di conduzione delle vigne è l’unica via percorribile per un buon futuro di produzione di qualità. Non chiude tutte le porte, ma servono di sicuro altri punti di forza a compensazione.

3 Vitigni & vinificazione. Porte aperte, se non spalancate, agli autoctoni. L’Italia viene vista come territorio di magnifici vitigni, e di buoni produttori. Pochi saranno seriamente interessati ad un Cabernet Sauvignon italiano (parlando di vitigni internazionali, forse l’unico visto come “anche” Italiano è lo Chardonnay), mentre parecchi lo saranno ad un buon Sangiovese o Nebbiolo. Poi via via a tutti i vitigni, anche molto più particolari, che abbiamo. Amano i vini puliti, se non tecnici; dando per scontata la tipicità del risultato finale, i difetti che a volte vengono dati per necessari nella produzione di certi vini estremamente naturali (piccole ossidazioni, per esempio), qui non hanno mai trovato particolare apprezzamento, se non in ristrettissime nicchie di consumatori. In genere è apprezzata la pulizia e la continuità, pur nel rispetto delle caratteristiche dell’annata.

4 Gusto. Qui devo per forza generalizzare, ma alcuni tratti fondamentali vanno capiti. Gusti internazionali, piacevoli, banali ma conosciutissimi (ciliegia, vaniglia e via di questo passo; sappiamo di cosa stiamo parlando), non sono il nostro mercato. Non dico che non piacciano, anzi, ma qui Cileni e tutto il nuovo Mondo sono imbattibili, anche perché arrivano al consumatore a prezzi dimezzati rispetto agli Italiani. Piacciono i gusti caratteristici, tipici dei nostri vitigni, per i quali sono disposti a pagare di più per l’unicità; e devono avere una certa energia, una certa forza. Pur nell’evoluzione positiva che li porta ad apprezzare sempre più la particolarità, l’intensità gioca ancora un ruolo fondamentale; non è raro che mi dicano che un tal vino è interessante, ma piuttosto scarico in bocca e quindi un poco deludente. Sempre in termini generali: non gradiscono particolarmente alcuni vini giovani, leggeri, bianchi o rossi che siano, che noi invece beviamo con piacere. Questo probabilmente perché per noi il vino è bevanda quotidiana, e quindi in certi momenti apprezziamo la leggerezza e la facilità di beva; per loro, pur nei loro grandi consumi, resta comunque una bevanda da momenti particolari, serate con amici, ristoranti di buon livello, dove cercano impatto gustativo. Quindi: tipici, intensi, lunghi i tratti di gusto maggiormente apprezzati.

Questi i punti fondamentali. Come detto all’inizio, non è indispensabile soddisfare tutti i requisiti, ma il farlo in tutto o in parte faciliterà la ricerca dell’importatore giusto. Ci sono poi altri dettagli che possono aiutare. Una etichetta molto sobria, elegante e pulita piacerà molto di più di una tempestata di falsi brillanti (per quella abbiamo la Cina). Il tappo di sughero piacerà di più del tappo a vite (abbassa la percezione di qualità, ci accosta ai già citati cileni, dal costo e prestigio ben più bassi). Precisione e puntualità nelle pratiche di inizio rapporto saranno altamente apprezzate, ma questo è invece un altro capitolo, quello di come affrontare il rapporto commerciale una volta che entrambe le parti hanno deciso di collaborare.