Quando Gino si è infilato tra i due filari di pioppi ho capito subito che alla fine di quella lunga e suggestiva strada sterrata ci saremmo immersi in qualcosa di fuori dal comune nel panorama delle aziende vitivinicole italiane.

A dire la verità questa percezione ha iniziato a costruirsi circa un anno fa quando ho conosciuto Elisabetta Cichellero Fracca durante uno dei nostri Campus Impresa. È arrivata al nostro percorso formativo con un’umiltà e una voglia di apprendere straordinaria. Da lei ho appreso che quando si ha voglia di crescere, di fare bene le cose l’età non conta nulla e lei si è messa nei nostri “banchi” come la più giovane degli studenti. 

Elisabetta è una donna di vera e autentica eleganza, una virtù oggi più che mai rara. La stessa eleganza che ho trovato nella sua azienda a Pasiano di Pordenone, tra la Laguna di Venezia e le Alpi Carniche.

Un luogo sospeso tra l’attività agricola e la ricerca di uno stile di vita naturale, in un ambiente sano.

Un luogo nato agli inizi dell’800 grazie ad una famiglia di commercianti di legname e proprietari terrieri e “recuperato” dai genitori di Elisabetta che negli anni Settanta erano alla ricerca di un posto dove passare serenamente dei week end e poi nel tempo, via via prese sempre più forma un’azienda agricola dove vigna e seminativi iniziarono a far sentire la loro voce.

Ma la grande evoluzione che ha portato l’azienda alla forma attuale lo si deve ad Elisabetta e a suo figlio Andrea Caine.

Andrea è il figlio di Elisabetta, si potrebbe affermare che è quanto di più lontano dalle caratteristiche di sua madre. Eppure quelle due anime così diverse tra di loro si fondono in una maniera speciale in questo angolo di Friuli. E tutto questo succede con assoluta spontaneità senza che i due quasi se ne rendano conto.

Da una sorta di conflitto permanente tra il desiderio di Elisabetta di costruire un’azienda “classica” e di Andrea di lasciare che sia la natura, senza vincoli o forzature, a dettare legge, ne esce Vigna Belvedere che oggi, però, bisogna chiamare Najma. Un cambio di nome, dobbiamo riportarlo solo per dovere di cronaca, obbligato da una nota multinazionale degli spirits che ha ravvisato in quella omonimia (Belvedere) un possibile rischio di plagio. Una di quelle follie legali che però hanno causato non pochi problemi all’azienda di Elisabetta ed Andrea.

Il nome scelto, comunque, conferma ulteriormente lo spirito di Elisabetta di legare la sua azienda a qualcosa che sia altamente identitario, legato alla sua esperienza di vita. Najma, infatti, è il nome dell’imbarcazione tipica veneziana che è stata donata alla famiglia molti anni fa e tuttora utilizzata nei suggestivi spostamenti in laguna.

Ma le peculiarità di quest’azienda non finiscono qui.

La sua specializzazione vitivinicola, infatti, è quanto di più lontano uno potrebbe immaginare per un’azienda con questa storia ed impostazione: il Prosecco. Si avete capito bene, la bollicina più popolare e “comune”, qualcuno potrebbe maliziosamente affermare, che si può oggi trovare sul mercato.

Ma ad Elisabetta ed Andrea piacciono le sfide “impossibili” come quella di riuscire a rendere riconoscibile e fortemente identitaria una piccola (rispetto ai tanti colossi che affollano il mercato) produzione di Prosecco.

Tre tipologie di Prosecco, un millesimato, un brut ed un extra-dry che, credeteci per il momento sulla parola, riescono veramente a dimostrare che la Glera in questo luogo sembra aver trovato un habitat per esprimere al meglio la sua personalità, in particolare nella sua versione più “secca”.

Da poco si è aggiunto uno spumante rosé, ottenuto da un vitigno che in questa terra è un vero e proprio re, il Refosco dal Peduncolo Rosso.

Ma limitarsi a parlare “solo” di prodotti a Najma a mio parere sarebbe un errore. Lo pensiamo per quasi tutte le aziende vitivinicole artigianali dove il prodotto rappresenta una sorta di filo conduttore per raccontare storie di donne e uomini, di famiglie, di territori e, perché no, anche di sogni, di alleanze e di conflitti.

Camminando nell’erba alta dei prati che circondano l’azienda (Elisabetta vorrebbe il prato all’inglese ma hanno prevalso in questo caso le logiche naturali di Andrea) tutto ci parla di una storia dove si è mischiata natura e vicende umane.

Come quando veniamo portati in una vecchio fabbricato che a breve diventerà deposito per la conservazione e l’essiccamento della canapa (delle infiorescenze).

Entriamo in un salone pieno di straordinari poster originali degli anni 70. Una sorta di museo che ci riporta quasi fossimo nella macchina del tempo a quegli anni così vitali e straordinari.

Era il posto delle feste con gli amici dei genitori di Elisabetta.

Loro avevano capito bene che la qualità della vita era un bene primario.

Un’eredità che in maniera diversa hanno ben appreso Elisabetta e suo figlio Andrea.

Così diversi e così uguali.