Molte aziende vinicole italiane ci sono già riuscite, e molte altre a fatica riescono ad inserirsi: il mercato statunitense degli alcolici non è un terreno semplice in cui approdare. Dal proibizionismo in poi le leggi statunitensi si sono diramate verso tante direzioni diverse; infatti, a seconda dello stato in cui si desidera importare vino, bisogna ottenere di norma una licenza specifica, che non vale in altre parti della nazione.
A Wine2Wine 2017, abbiamo incontrato due avvocati esperti del settore, che si occupano di affiancare le aziende vinicole italiane nel momento in cui queste desiderano importare i propri prodotti o aprire una filiale negli USA.
Nicola Baù e Roberta Crivellaro dello Studio legale Whiters hanno risposto ad alcune nostre domande, rendendoci più chiaro cosa significhi puntare agli Stati Uniti come mercato target e quali sono i rischi che ne conseguono.
Durante il loro intervento a Wine2Wine hanno affrontato un argomento delicato per le aziende interessate all’inserimento in America, ovvero il cosiddetto “Three-tier system“.

Ci potete spiegare meglio,per chi ancora non lo conoscesse, il three-tier system?
Il three-tier system della distribuzione alcolica è costituito da tre livelli, corrispondenti a tre categorie professionali, che devono necessariamente rispettare una procedura commerciale stabilita: produttori o importatori, distributori e retailers.
I produttori possono vendere i prodotti solo ai distributori, che a loro volta possono rivenderli solo ai retailers, e così questi ultimi ai consumatori finali.
Per un produttore o un distributore, non è possibile vendere direttamente al consumatore finale.

In base alla vostra esperienza, qual è in trend generale che avete riscontrato nelle vostre numerose collaborazioni?
Negli ultimi anni stiamo lavorando moltissimo con i produttori di vino italiano negli Stati Uniti, molti hanno deciso di costituire la loro società di importazione, un trend molto interessante per i player più grossi.
Molti invece si sono consorziati, essendo competitor a livello regionale in Italia ad esempio, e hanno costituito insieme una società di importazione negli Stati Uniti.
La tendenza è sicuramente quella di prendere la via dell’importazione in maniera autonoma e non passare dall’importatore, ovvero come si faceva una volta.
Il mercato della distribuzione si è anche consolidato negli anni, quindi è più difficile da penetrare, pertanto anche questo è un elemento che necessita un conseguente consolidamento in Italia e, generalmente, gli Stati Uniti rimangono un paese target per i produttori di vino italiani.

Quali sono le problematiche più comuni, gli errori che avete riscontrato durante le varie collaborazioni con aziende italiane?
L’errore principale è quello di una mancata pianificazione. A vari livelli gli USA sono il primo mercato del mondo per quanto riguarda il vino, non con grandissimi margini di sviluppo, ma forse il più complicato per la nostra esperienza, sia per ragioni commerciali sia per ragioni legali, in quanto c’è una legislazione particolare, unica al mondo, legata al proibizionismo, il cosiddetto “Tree Tier System”, nel quale il produttore non può andare al retail direttamente.
L’aspetto fiscale è altrettanto importante, insieme all’aspetto delle liquor licenses. Molto importante è quindi un’attenta pianificazione, poiché non ci si può improvvisare negli Stati Uniti.