Ho aspettato più di due settimane prima di commentare l’analisi dell’Osservatorio del Vino di Unione Italiana Vini commissionata da Vinitaly e presentata nell’ultima edizione di wine2wine.
Ci ho messo molto perché è stata un bel colpo allo stomaco e non penso di essere stato l’unico ad avere una reazione così forte.
Ricordo che dall’analisi emergono prospettive per il 2023 molto preoccupanti per il vino italiano che, a causa di uno scenario recessivo, sia in Italia che all’estero, rischia di chiduere l’anno a 12 miliardi di euro (stesso valore del 2020) e cioè un calo medio dei fatturati del 16%. Una diminuzione molto grave basata sull’attuale previsione produttiva di 50 milioni di hl ma che potrebbe essere peggiore se la vendemmia 2022 si dimostrasse addirittura superiore.
È indubbio che l’aggravio dei costi, soprattutto quelli energetici, stia avendo un impatto pesantissimo anche sui costi delle imprese vitivinicole italiane. Sempre secondo l’analisi dell’Osservatorio vino di Uiv, il surplus di costi registrato quest’anno dalle imprese italiane – 1,5 miliardi, l’83% in più, derivanti dai soli aumenti dei prezzi energetici e delle materie prime secche, come tappi, vetro e carta – complicherà i bilanci 2022 delle imprese. A partire dal Margine operativo lordo, previsto quest’anno al 10%, in discesa rispetto al 25% del 2021 e peggiore anche dell’annus horribilis 2020, quando l’indicatore di redditività riscontrato era al 17%.
Dati negativi che però non avranno un grande impatto sul 2022 che si dovrebbe chiudere, sempre secondo i dati dell’Osservatorio di Uiv, con vendite generali in calo dell’1% a volume (41,4 milioni di ettolitri), per un valore in aumento, grazie all’horeca e alla vendita diretta, del 6%, a 14,3 miliardi. Ancor meglio l’export che dovrebbe chiudersi con un +10% in valore.
Sarà quindi il prossimo anno quello che dovrebbe portare il conto più salato al nostro settore.
Ma quale la principale ragione di un tracollo così preoccupante previsto per il prossimo anno?
L’Osservatorio di Uiv non ha dubbi: sono quei 7,2 milioni di ettolitri di eccedenze che vengono indicati con il poco lusinghiero aggettivo di vini “poco appetibili” per il mercato e che gravano pesantemente sul valore del vino italiano.
Per essere più precisi, questi vini poco appetibili sono rappresentati soprattutto nella categoria dei “vini comuni” (30% del totale) e i vini dop/igp rivendicati ma non imbottigliati (che rappresentano il 45% del totale delle eccedenze).
Non voglio assolutamente entrare sul tema dell’attendibilità o meno delle fosche previsioni dell’Osservatorio di Uiv anche perché, punto più punto meno, ritengo che dobbiamo prepararci ad una situazione grave. Situazione che però, a mio modesto parere, sarebbe sbagliato considerare solo da un punto di vista congiunturale. Che il nostro settore vitivinicolo abbia da tempo problemi strutturali non vi è ombra di dubbio.
L’unica cosa che mi sento di contestare, se così si può dire, all’analisi di Uiv/Vinitaly è di evidenziare il “peccato” ma non il “peccatore”.
È pertanto fondamentale, oggi, porsi due domande che da troppo tempo il nostro sistema vitivinicolo evita (considerandole probabilmente troppo scomode): quali sono esattamente, mettendo “nomi e cognomi” (denominazioni) i vini “poco appetibili” italiani? Quali sono le ragioni che determinano la perdurante esistenza di questi vini poco appetibili dal mercato se non a valori risibili? Ma esiste anche una terza domanda che è importante porsi: ci sono vini poco appetibili che potrebbero diventare appetibili grazie al determinarsi di alcune condizioni?
Comprendo che non sia possibile dare una risposta alla prima domanda davanti a tutti con assoluta trasparenza ma mi chiedo se esistono oggi stanze (Consorzi di Tutela, associazioni di categoria, ecc.) dove questo confronto possa avvenire con onestà e chiarezza. E per non passare per ingenui, bisogna anche chiedersi se il mantenimento di molte denominazioni poco appetibili non sia anche frutto di interessi di quelle tipologie di imprese che necessitano costantemente di vini a prezzi drammaticamente stracciati. Qualunque siano le ragioni, non vi è dubbio che non possiamo aspettare che sia il mercato a determinare l’”autopulizia” di tante (troppe) nostre doc e igt, perché così facendo ci trascineremo questa situazione vino all’eternità.
Ma ritengo altrettanto fondamentale, se non addirittura più importante, comprendere quali siano le ragioni di questa perdurante presenza di vini poco appetibili nel nostro sistema vitivinicolo.
È essenziale provare a dare risposte su questo fronte perché altrimenti si rischia di dare un’immagine negativa a tutto il vino italiano che invece, per fortuna, gode ancora di valori molto importanti, testimoniati anche dalla resilienza evidenziata in quest’ultimo difficilissimo triennio.
Io ritengo che le motivazioni della poca appetibilità di alcuni nostri vini si possano suddividere in due categorie: motivazioni “aziendali” e motivazioni “territoriali”.
Per “aziendali” intendo la difficoltà di non poche imprese del nostro Paese di essere adeguatamente strutturate e performanti sul fronte commerciale. Un fronte che, è bene ricordarlo, è costituito da due fattori chiave: quello della costruzione di strategie di marketing (comunicazione, analisi dei mercati, ecc.) e quello della vendita (da quella diretta all’export).
Non esistono dati statistici ufficiali al riguardo, ma dal nostro osservatorio, che ormai coinvolge almeno tremila imprese che monitoriamo con una certa costanza, la percentuale di imprese del vino italiano con gravi deficit sui due fattori sopra menzionati è almeno del 40%.
Se poi ci spostiamo sulle motivazioni “territoriali”, il quadro si fa ancor più negativo perché, purtroppo, sono una netta minoranza le nostre denominazioni che godono di una gestione efficace.
Su questo fronte sarebbe anche facile realizzare un’analisi, ad esempio, sulla capacità dei Consorzi di Tutela di garantire un corretto posizionamento, valore, immagine, alla propria denominazione.
Se, quindi, le due “motivazioni” sopra evidenziate si considerano corrette (io non ho dubbi al riguardo ma sono apertissimo per possibili smentite), possiamo non chiederci se, con una gestione diversa, alcuni nostri vini oggi poco appetibili potrebbero invece rappresentare risorse preziose per dare valore alle nostre imprese e quindi al vino italiano?
Provate a leggere l’elenco degli attuali vini poco appetibili italiani e poi ditemi se ve la sentireste di cancellarli senza nessun dubbio.
Non significa che, visto che abbiamo dubbi, dobbiamo portare avanti tutte le nostre denominazioni a prescindere; ma non potrebbe essere proprio questa l’occasione per fare un’analisi onesta sulla reale competitività dei vini italiani?