Il tempo e l’amore creano valore. Questo è il messaggio che possiamo dire di portarci a casa dopo aver partecipato ad Amarone Opera Prima, la due giorni organizzata dal Consorzio vini Valpolicella per celebrare il millesimo 2018 dell’iconico Rosso veronese, conclusasi ieri a Verona.
Più che parlare della nuova annata, quella che ci sembra la conquista più importante oggi, dopo un 2022 all’insegna del consolidamento per il Consorzio veronese che raccoglie oltre 2400 aziende su un territorio di produzione che si estende in 19 comuni dalla Valpolicella fino a Verona, è la presentazione della candidatura della tecnica della messa a riposo delle uve della Valpolicella a patrimonio immateriale dell’Unesco.
Ci sono voluti dieci lunghi anni, così come lunga è la messa a riposo delle uve con cui in Valpolicella si producono Recioto ed Amarone, per redigere un dossier di dieci pagine frutto di studio, analisi, raccolta di documenti, da parte di un Comitato scientifico presieduto dai massimi esperti tra enologi, giuristi e antropologi. Dieci gli anni di attesa di una comunità fortemente determinata a insignire il secolare appassimento come patrimonio immateriale dell’umanità. Un obiettivo che, se sarà centrato, riconoscerà alla Valpolicella anche il primato di iscrizione di una pratica di vinificazione negli elenchi tutelati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. Ora il documento verrà trasmesso al ministero della Cultura, a quello dell’Agricoltura e alla Commissione nazionale per l’Unesco, l’organismo interministeriale coordinato dal ministero degli Esteri cui spetta il compito di scegliere, entro il 30 marzo, l’unica candidatura italiana da inviare a Parigi per la valutazione.
Cos’è un patrimonio immateriale e perché la tecnica di messa a riposo delle uve della Valpolicella meriterebbe questo appellativo? Per Pier Luigi Petrillo, coordinatore del Comitato scientifico, professore e direttore della cattedra Unesco sui Patrimoni culturali immateriali dell’Università Unitelma Sapienza di Roma: “Si tratta di una tecnica che rispecchia la storia sociale, politica, economica di questo territorio e ne manifesta la sua evoluzione. Il profondo radicamento culturale e identitario definisce la stessa architettura rurale della Valpolicella: un saper fare che da oltre 1500 anni identifica questa comunità”.
Elisabetta Moro, professore ordinario di Antropologia Culturale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, parte del Comitato scientifico che ha redatto il dossier, ha spiegato che: “Lo scopo di questo riconoscimento Unesco è quello di mettere in atto delle fermentazioni culturali, far crescere la consapevolezza della memoria identitaria di una comunità. La bottiglia di vino è l’emblema di un’identità liquida in una società liquida, come quella in cui viviamo oggi. Mettere a riposo le uve significa accudire, come lo si fa con dei bambini in una casa. I fruttai li abbiamo chiamati dimore”. Ecco dunque che tornano i concetti di tempo, cura, pazienza, amore.
“Il traguardo di oggi è il risultato di un grande lavoro di squadra – ha commentato il presidente del Consorzio vini Valpolicella, Christian Marchesini – che ha messo a fattor comune la valorizzazione della Valpolicella e la sua vocazione all’eccellenza. Una unità di intenti e di visione che ha riscontrato l’appoggio anche delle istituzioni, a partire dalla Regione Veneto e dal suo presidente, Luca Zaia. Ora confidiamo che i ministeri deputati a decidere la presentazione della candidatura sappiano riconoscere il valore antropologico e socioeconomico di questa tecnica. Non dimentichiamo, infatti, che la denominazione genera un fatturato di oltre 600 milioni di euro l’anno”.
