Approfittiamo di una interessante “provocazione” lanciata  in questi giorni su Linkedin da Gianpaolo Paglia, uno dei migliori esperti di mercati internazionali del vino che abbiamo nel nostro Paese, oggi business development manager Europe per Liv-Ex.

“Mentre i vini italiani di pregio – scrive Paglia – stanno aumentando rapidamente le loro posizioni a livello internazionale, non c’è ancora una critica italiana di riferimento per l’estero. Quasi tutte le citazioni, note di degustazione e voti sono espressi da Wine Advocate, Vinous, Wine Spectator, ecc.  Posso assicurare che c’è grande richiesta di voci autorevoli e sopratutto “organizzate e fruibili” (e questo forse è il punto maggiore) italiane dall’estero.

Se oggi dovessi consigliare un equivalente italiano di Galloni, Monica Lerner, James Suckling, non saprei chi. E non per mancanza di expertise, ma proprio per la fruibilità per un mercato straniero. Per esempio lingua inglese, vasto e accessibile database di degustazioni correnti e storiche, con note di degustazione “standard” (es. drinking window, scala centesimale ecc.). 

Chiedo a voi, chi può avere queste caratteristiche?

La provocazione è sicuramente interessante ed importante anche perché riporta alla ribalta un tema che troppo spesso viene banalizzato o sottovalutato e cioè quello della critica enologica.

Eppure mai come oggi dobbiamo chiederci quanto conta, pesa la critica enologica sulle dinamiche dei mercati. Ma anche quanto essa, nel caso Italia, riesce a fare emergere al meglio l’identità dell’eccellenza vitienologica del nostro Paese, soprattutto sui mercati internazionali.

Sul primo punto in questi giorni ci vengono in aiuto i giudizi espressi dal noto magazine Wine Spectator che ha pubblicato i migliori vini del 2020. Quanto sta pesando sul mercato questa classifica? Una prima risposta è arrivata sempre da Liv-Ex che monitora proprio l’evoluzione dei fine wines nel mondo. L’esempio più eclatante è rappresentato proprio dal primo della lista di Wine Spectator, Bodegas Marqués de Murrieta Rioja Castillo Ygay Gran Reserva Especial 2010k che è passato in pochi giorni dal 19° vino più scambiato dalla Spagna nei primi undici mesi dell’anno, al più scambiato a dicembre e al quarto posto da inizio anno. Ottimo impatto anche sul fronte prezzo passato da circa 960 euro per cassa (12 btg da 0,75) a quasi 1.170 euro. Certo, stiamo parlando di un quantitativo abbastanza ridotto (90.000 bottiglie) ma comunque la seconda produzione più consistente tra i primi dieci vini classificati. 

Guardando poi i vini italiani “premiati” dalla nota rivista statunitense il Brunello di Montalcino Le Lucere 2015 di San Filippo ha visto prezzi crescere del 27,4% e il Barolo 2016 di Massolino del 24,4%.

Certo, è molto difficile avere un quadro complessivo dell’incidenza su vendite e prezzi di tutti i vini premiati dalla critica enologica mondiale più autorevole, ma le informazioni che ci arrivano, pur parziali, indicano tutt’oggi evidenti fattori di positività.

Per questa ragione consideriamo l’osservazione di Paglia assolutamente pertinente e attuale e dobbiamo pertanto chiederci se  non sarebbe più utile avere una “voce più forte e autorevole” anche della critica italiana.

Attenzione, non si tratta di un tema nuovo. Si discute di questa problematica da moltissimi anni. Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare alla ricerca realizzata ormai oltre quindici anni fa dal settimanale L’Informatore Agrario in collaborazione con il prof. Eugenio Pomarici, uno dei più stimati economisti del vino italiani, allora ordinario all’Università di Portici (Napoli). Alla ricerca parteciparono (con il noto metodo Delphi) i più importanti e autorevoli imprenditori e manager del vino italiani. Si voleva comprendere quali potevano essere gli strumenti più utili per lo sviluppo della competitività del sistema vitivinicolo del nostro Paese. Tra i risultati emerse, con ampia condivisione, la necessità di avere finalmente un “Wine Spectator Italiano”, una critica enologica italiana capace di essere credibile nel mondo per non dipendere esclusivamente da quella in gran parte anglosassone.

Sappiamo come è andata la storia e non vale nemmeno la pena rivangarla troppo ma è indubbio che, non solo quanto si era auspicato non è avvenuto, ma anzi è aumentata nel frattempo la frammentazione della cosiddetta critica enologica italiana.

E in questa frammentazione, come altre volte abbiamo scritto, a nostro parere risiede parte del problema. Se, infatti, i migliori critici enologici del nostro Paese (e ne abbiamo più di quanto si possa immaginare) avessero scelto di “fare squadra” trovando una casa comune, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso.

Sicuramente, altro elemento evidenziato da numerosi commenti all’osservazione di Paglia su Linkedin, sono le differenze tra l’approccio culturale italiano alla critica enologica rispetto a quello americano od inglese e non “solo” in relazione all’aspetto linguistico. Secondo alcuni, infatti, la narrazione della critica italiana ha una forte componente emotiva che non tiene quasi mai conto del mercato e questo rallenta notevolmente il “ritmo”, con il rischio di allontanare invece che avvicinare i potenziali consumatori ma anche il trade.

Indubbiamente il gap culturale tra la “comunicazione” del vino italiana e quella, in particolare, anglosassone è innegabile e, soprattutto sul fronte della critica enologica, delle recensioni dei vini in generale, questo ci penalizza non poco a livello internazionale.

Ma non per questo riteniamo meno importante la domanda che pone Paglia e cioè di valutare finalmente seriamente l’opportunità di costruire una critica enologica italiana in grado di parlare e di essere credibile al mondo.

Forse oggi c’è una nuova generazione di “critici enologici” italiani che non solo sono in grado di essere più pronti sul fronte linguistico (non è infatti solo un problema di traduzione di testi) ma con un imprinting culturale molto più internazionale (la cosiddetta generazione Erasmus).

È fondamentale, però, che molti di essi finalmente escano dalla loro confort zone del proprio più o meno piccolo blog o pagina instagram e, soprattutto, accettino la sfida del fare squadra.

Non è detto che dove hanno sbagliato i padri falliscano anche i figli. C’è da augurarselo per il bene del vino italiano.