Peccato non esista un misuratore del livello qualitativo del vino italiano. È chiaro che misurare la qualità media del vino italiano è molto difficile e lo è anche provare a fare quest’analisi nei singoli segmenti produttivi.

Però, se ci pensate, è quanto mai opportuno chiedersi (almeno all’interno di ogni singola denominazione) quale sia l’attuale profilo qualitativo, il livello di percezione “esterna” della qualità dei vini di un determinato territorio.

Tuttavia, quella che fino ad alcuni anni fa sembrava una domanda fondamentale, in quest’ultimo decennio sembra improponibile perché la qualità è un prerequisito che è stato raggiunto ormai da tutti (o quasi).

Ci siamo talmente convinti di tale – scusate – stupida affermazione che parlare di quali siano i requisiti per arrivare ad un livello qualitativo adeguato è diventato un esercizio inutile, obsoleto, al massimo interessante per pochi addetti ai lavori.
Se per qualità intendiamo spesso l’assenza di evidenti difetti, sicuramente i passi avanti sono stati tantissimi, in particolare nell’ultimo trentennio.
Ma quanti sono, però, quei vini in grado di esprimere valori qualitativi altrettanto evidenti, con una personalità facilmente riconoscibile? Molti meno di quanti possiamo immaginare e sperare.

Perché i vini di qualità sono meno di quelli che pensiamo?

Sono numerose le ragioni della difficoltà di raggiungere profili qualitativi in grado di rendere un vino, talvolta anche una denominazione, fortemente riconoscibile e capace di entrare nel cosiddetto “alveo dell’eccellenza”.
Provo ad elencare, in estrema sintesi, quattro possibili ragioni:

  • un territorio scarsamente vocato;
  • un vitigno di ridotta “personalità”;
  • incidenza, negativa, delle mutazioni climatiche;
  • competenze viticole ed enologiche non adeguate.

Partiamo dal tema della “vocazionalità”. A forza di dire che tutti i territori vitivinicoli italiani sono vocati a produrre vini d’alta qualità, ci abbiamo creduto davvero. Grave errore in tutti sensi, perché non solo non è vero, ma questo in qualche misura impedisce di far comprendere ai consumatori la straordinaria capacità di alcuni (pochi) produttori di superare i “limiti genetici” di un territorio.
Sarebbe bello, a quest’ultimo riguardo, stilare una sorta di guida di quei produttori che sono riusciti ad arrivare all’eccellenza pur in territori dalla non straordinaria vocazionalità.

In questa direzione, a ben pensarci, vi è anche la storica “conflittualità” tra vini di pianura e vini di collina. La realtà, però, ci ha raccontato di produttori che sono riusciti a realizzare grandi vini anche in pianura e non sempre la collina si è dimostrata amica di molti vitivinicoltori. E questo a dimostrazione, ancora una volta, della pericolosità di molti luoghi comuni del vino.

Altra tematica è quella del vitigno. Quante volte, a questo riguardo, sentiamo comunicazioni incentrate sul valore del cosiddetto “vitigno autoctono”, considerato una sorta di garanzia assoluta per realizzare vini ad alta personalità e riconoscibilità? Magari fosse sempre così. La realtà, invece, ci racconta molte cose, a partire dal fatto che l’autoctono non è sempre bello e che l’internazionale, in alcuni territori, è la scelta migliore.

Ma la semplificazione di questo messaggio ha portato alcuni territori nati con una grande vocazionalità per i vitigni internazionali (Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon, tanto per citare i più noti) a ricercare in maniera spasmodica un’identità autoctona e finendo così per realizzare vini assolutamente anonimi. Pensate, a quest’ultimo riguardo, quante altre “Bolgheri” avremmo in Italia se non avessimo avuto il “complesso dell’internazionale”.

Tra le ragioni che impediscono di raggiungere profili qualitativi degni di nota non si può assolutamente sottacere la problematica delle mutazioni climatiche. Mutazioni che, in alcuni territori, stanno profondamente trasformando i vini (in qualche raro caso anche in positivo, a dire il vero).
Ma le mutazioni climatiche possono e devono diventare una tematica comunicativamente straordinaria se “sfruttata” per esaltare al meglio la capacità dei produttori di adeguarsi a questa emergenza, migliorando le loro competenze agronomiche ed enologiche.

Infine, non certo per importanza, vi è il tema delle competenze viticole ed enologiche non adeguate. È incredibile come la tematica della “competenza” sia considerata inutile, noiosa nella comunicazione attuale del vino.

Il cosiddetto “storytelling tecnico”, invece, a mio parere, oggi è ancor più importante che nel passato perché l’asticella per produrre eccellenza riconoscibile nel vino si è alzata tantissimo in questa fase storica (e si alzerà ancor di più nel prossimo futuro).

Non a caso, i brand più forti oggi non sono più quelli più bravi a comunicare, a farsi notare, ma quelli ai quali si riconosce una competenza produttiva di altissimo livello sia sul fronte “vigneto” che su quello “cantina”.

Purtroppo va fatta una critica anche alla nostra categoria di giornalisti del vino, che vede la presenza sempre più ridotta di professionisti competenti in materia viticola ed enologica.
A forza di pensare che alla fine vincono sempre le “emozioni”, anche noi “divulgatori” ci siamo illusi che conoscere in profondità cosa significa produrre vini di autentica qualità non sia così indispensabile.