Abbiamo finito di leggere in questi giorni una straordinaria pubblicazione che consigliamo a tutti coloro che, a vari livelli, si occupano di mercato del vino. Si tratta di “Wine Globalization: a new comparative history” (ed. Cambridge University Press, 2018), un’analisi assolutamente approfondita dell’evoluzione del vino, in tutti i suoi diversi aspetti, dalla produzione al consumo per giungere fino agli aspetti commerciali, da metà dell’Ottocento ai giorni nostri.

Un lavoro che definire “monumentale” non è esagerato e un grande ringraziamento va fatto a Kym Anderson, professore di economia e direttore del Wine Economics Research Centre dell’Università di Adelaide (Australia) e Vicente Pinilla, professore di economia all’Università di Saragozza (Spagna), che hanno curato questa pubblicazione di oltre 500 pagine.

È stata una lettura molto utile, soprattutto in questa fase, perché consente di comprendere a tutti coloro che si occupano di vino il cosiddetto “da dove veniamo” e quindi, in qualche misura, cosa dobbiamo aspettarci nel futuro.

Leggendo infatti questa analisi così approfondita e storica del mondo del vino si ha la sensazione che il concetto di corsi e ricorsi storici di Gian Battista Vico, in qualche modo possa anche essere valida per il nostro amato vino.

Nella parte conclusiva di questa pubblicazione viene anche riportata una possibile proiezione delle dinamiche produttive e di mercato al 2025 ma, vista l’attuale pandemia e tutte le conseguenze che sta determinando, riteniamo in questo momento di non prendere in considerazione quanto ipotizzato dagli autori, anche se alcune previsioni sono sicuramente interessanti e ne scriveremo a breve.

La storia analizzata dagli autori parte dal 1835, anno in cui si considera abbia avuto inizio la prima globalizzazione, poco prima che California, Sud Australia, Victoria e Nuova Zelanda cominciassero la loro produzione vitivinicola a livello commerciale (in realtà vengono riportati anche dati antecedenti a quell’epoca ad ulteriore dimostrazione che la storia del vino ha avuto fasi molto interessanti anche prima dell’avvio dei processi di globalizzazione).

Da allora ad oggi, comunque, sono state numerose le fasi, sia positive ma anche molto negative, che ha attraversato il settore vitivinicolo. Probabilmente, pertanto, leggendo questo libro si ha la sensazione che è sbagliato considerare l’evoluzione economica di un comparto come un susseguirsi costante di cose “nuove” ma più giustamente un continuo aggiustamento dove il “vecchio” si modifica, si adatta, ma non necessariamente “scompare”.  

Un po’ come l’andamento della pandemia che, purtroppo, abbiamo compreso si muove ad ondate.

È chiaro che nelle analisi attuali ci viene più facile, per certi aspetti, considerare il futuro come un qualcosa di completamente nuovo. Abbiamo addirittura coniato il termine “new normal” che spesso si traduce in un’affermazione assolutamente astratta, senza nessuna chiara definizione di cosa potrà essere concretamente.

È molto utile, quindi, leggere le fasi storiche del vino partendo da così lontano, perché possono regalare spunti di riflessione molto interessanti.

Abbiamo scelto, tra i tanti, alcuni dati che riteniamo siano preziosi per darci qualche indicazione di cosa potrà succedere nel prossimo futuro. Ma ne presenteremo a breve altri visto l’alto numero di informazioni e conseguenti riflessioni che sono emerse dalla lettura della pubblicazione di Anderson e Pinilla.

Partiamo da consumi che alla fine rappresentano probabilmente il parametro più interessante per valutare non solo le evoluzioni dei mercati ma anche, e soprattutto, il livello di interesse dei consumatori nei confronti del vino.  

Innanzitutto anticipiamo che gli autori, dall’analisi dei dati che partono dal 1860 e giungono fino al 2016, hanno evidenziato come i livelli di consumo pro capite non sono influenzati solo dai livelli di reddito anche se questi, ovviamente, hanno uno notevole importanza.

Già questa constatazione, in gran parte nota, dimostra come il vino non sempre risponda alle dinamiche classiche del mercato e talvolta rappresenta un prodotto cosiddetto “anticiclico”.  

Guardando comunque l’evoluzione storica dei consumi pro capite, negli anni a partire dal 1860 il consumo globale pro capite era mediamente di 9 litri per anno per scendere poi, con l’arrivo della fillossera in Europa, a partire dal 1870, a 8 litri pro capite. Si ritorna poi ai 9 litri poco prima della Prima Guerra Mondiale per poi iniziare a calare costantemente, passando dagli 8,5 litri tra le due Guerre, a 7,5 tra il 1950 e 1979, a 6,5 negli anni ’80, a 4,5 tra il 1990 e 2009 e a 3,8 tra il 2010 e il 2015. A questa diminuzione, però, è corrisposta una costante ricerca di vini di maggiore qualità, ma se negli anni 60 la quota di consumo del vino rispetto alle altre bevande alcoliche era superiore al 30%, oggi questa percentuale è più che dimezzata. 

Va però sottolineato, a quest’ultimo riguardo, che se è diminuita la quota del vino a volume quella della “spesa” è cresciuta costantemente raggiungendo tra il 2010 e il 2014 (grazie soprattutto al cosiddetto processo di premiumizzazione) il 44% contro il 21% della birra e il 35% degli spirits. Significa in maniera inequivocabile che le persone bevono meno vino ma sicuramente di qualità ben superiore rispetto al passato.

Si deve comunque riflettere, anche in chiave di prospettiva, quali possono essere i “nuovi” fattori per erodere quote di consumo alle altre bevande alcoliche perché è indubbio che il vino abbia perso appeal nel tempo, nonostante il grande impegno dei produttori di migliorarne il suo profilo qualitativo. In particolare, anche secondo quanto emerge dall’ultimo report della Silicon Valley Bank, sull’industria del vino americana, i millennials continuano ad essere poco “ingaggiati” sul fronte vino.

Altro aspetto che volevamo evidenziare, tra i tantissimi che emergono dalla lettura di questo libro, è lo sviluppo del commercio mondiale del vino. La quota dell’export vitivinicolo rispetto alla produzione globale è passata dal 5 al 15% tra il 1960 e il 1990 per raggiungere l’apice attuale del 40% nel 2012. Di fatto oggi possiamo dire che circa la metà della produzione mondiale è oggetto di scambi commerciali internazionali.

Possiamo considerare oggi questa quota export un limite difficilmente superabile? È una domanda legittima da porsi anche se, guardando i consumi in tanti nuovi mercati emergenti verrebbe da pensare che i margini di crescita siano ancora rilevanti. Ciò non toglie che oggi dobbiamo seriamente chiederci come raggiungere questi nuovi consumatori perché forse alcuni modelli del passato non sono più così adeguati e le riduzioni dell’import del vino in Cina di quest’ultimo triennio sono un chiaro segnale.