Vera Gheno è una sociolinguista, saggista, traduttrice ed autrice di numerosi libri tra cui “Le ragioni del dubbio – l’arte di usare le parole”, “Femminili singolari – il femminismo è nelle parole” e “Potere alle parole – perché usarle meglio”.
La scrittrice ha lavorato per 20 anni all’Accademia della Crusca e, da settembre 2021 è ricercatrice presso l’Università di Firenze.
Chi opera nei settori della comunicazione e del giornalismo dovrebbe non solo comunicare bene, ma anche farlo in modo comprensibile ed inclusivo, tenendo conto di tutte le dimensioni della realtà.
Abbiamo approfondito con Vera Gheno la sua prospettiva ed il suo punto di vista su quale sia il modo più corretto per comunicare nel mondo del vino.
Secondo Gheno ci sono delle domande che corrispondo a 3 principi base universali:
- Cosa devi comunicare?
- Chi sono i tuoi interlocutori?
- Qual è il contesto?
Queste tre domande fanno parte di un triangolo mentale che non bisognerebbe mai evitare di porsi in maniera interrogativa perché – sottolinea la scrittrice – “quando si ha ben chiaro cosa dire, a chi e in quale contesto, metà del lavoro è già fatto”.
Nel mondo del giornalismo sorgono però due problemi: quello della banalizzazione della lingua e quello della volontà di sopraffazione.
Se il giornalismo del vino può tranquillamente astenersi dall’utilizzo di quelli che Gheno chiama “plastismi”, citando Ornella Castellani Pollidori – cioè modalità comunicative e linguistiche stereotipate come per esempio “nessuno rompe il muro di gomma dell’omertà” o “weekend da bollino nero” –, ciò che mina la comunicazione giornalistica del vino è la volontà di sopraffazione: “Ho studiato per avere questa competenza e adesso questa competenza io te la sbatto in faccia”.
Gheno, infatti, spiega che il settore vino è un settore specifico e tecnico e, molto spesso, come in tutti quegli ambiti più settoriali e specifici, c’è chi cade nell’errore di difesa di una casta, che non è in realtà sotto attacco.
“I divulgatori dovrebbero essere mossi dalla volontà di condividere – continua la scrittrice – e non dalla volontà di apparire preparati e formati cercando il passaggio più astruso, la parola più arcana”. Continua Gheno, “Così la condivisione si perde: si passa da quella che dovrebbe essere una comunicazione generativa – che crea dei ponti e delle suggestioni – a una comunicazione meramente performativa – il circo della divulgazione”.
Perciò, se esistono 3 domande base da cui partire per prepararsi ad una buona comunicazione, non esiste un sistema universale che identifichi il modo perfetto per comunicare.
“Bisognerebbe voler condividere le proprie conoscenze, invece che voler padroneggiare con la lingua, facendo sfoggio di competenza. L’utilitarismo, la voglia di sopraffazione sono tutte nemiche della comunicazione. Non c’è un modo perfetto per comunicare, ci dovrebbe essere solo un’intenzione”, ribadisce Gheno.
Inoltre, continua la scrittrice, è necessario tenere presente che l’italiano, a differenza di altre lingue come per esempio l’inglese, è una lingua giovane nella sua forma orale: nonostante l’italiano scritto abbia una storia plurisecolare – con Dante che scrive in un ottimo volgare molto attuale e il Bembo che nel ‘500 sceglie il fiorentino parlato dalle classi colte come base di quella che poi sarebbe diventata la lingua nazionale – l’italiano parlato ha avuto la sua evoluzione solo negli ultimi 60 anni.
A questo si aggiungono altri due fattori, spiega Gheno: “A scuola si studia un canone scolastico che non ha corrispondenza nell’uso orale (nessuno, fuori dai temi scolastici, dice «egli si è recato»), questo crea una dicotomia mentale sull’uso dell’italiano. In più, mediamente gli italiani hanno una bassa consapevolezza dell’esistenza di diversi registri linguistici e questo spinge le persone a non sapere come comunicare, in quale contesto e con che tono”.
Comunque, grazie ai mezzi di comunicazione di massa che la scrittrice chiama oggi “mezzi di comunicazione per la massa”, l’idea dell’italiano aulico si è persa e c’è stato un abbassamento del livello che, secondo Gheno, non è necessariamente un fattore negativo, a patto che si sappia cosa e a chi si vuole comunicare.
L’inclusività intesa in senso lato, che comprende tutte le dimensioni di realtà, può essere inserita anche nella comunicazione del vino, se c’è una buona conoscenza della norma, dei registri e della lingua più in generale.
Secondo Gheno, utilizzare lo schwa – simbolo dell’alfabeto fonetico che indica una vocale neutra –, in virtù dell’inclusività linguistica, può non essere la scelta corretta “se la si utilizza in un contesto di cui non si conoscono bene i confini (non essendo all’interno di un collettivo trans-femminista, per esempio) come una rivista di settore, può far sì che i lettori e le lettrici perdano interesse perché non capiscono il motivo per il quale si stia usando lo schwa”.
La scrittrice, a tal proposito, specifica che “all’interno di contesti sicuri, non c’è nessun problema ad utilizzare lo schwa, ma si può evitarne facilmente l’impiego in tutti quei contesti meno nitidi, senza comunque fare utilizzo del maschile sovraesteso, riformulando semplicemente la frase: per esempio, invece che dire «i bevitori di vino», si può scrivere «chi consuma abitualmente vino». In questo modo si elimina il maschile sovraesteso – che ha delle conseguenze a livello cognitivo – e, al contempo, non si usa una forma sperimentale come lo schwa che avrebbe potuto complicare il discorso piuttosto che rendendo più chiaro”
Come lo schwa, ci sono altre pietre di inciampo linguistico – neologismi la cui forma non è ancora stata normalizzata – e che, se male utilizzate, potrebbero rendere più tortuosa la comunicazione, piuttosto che facilitarla.
In conclusione Gheno ritiene che affinché una buona comunicazione sia inclusiva, comprensibile e corretta è necessario “avere l’intenzione di condividere la propria conoscenza e farlo in modo corretto, utilizzando il tono giusto nel contesto giusto e facendo attenzione a tutte le dimensioni di realtà, perché con la lingua e con le persone dobbiamo creare ponti, non aprire crepacci”.