Rompendo la regola non scritta del mio editoriale del venerdì che, normalmente, riporta alcune riflessioni sul mondo del vino (in particolare su quello del nostro Paese), oggi dedico questo spazio ad un’intervista che ho fatto a Paul Wagner, che considero uno dei maggiori esperti di marketing del vino a livello mondiale.
Paul Wagner è presidente emerito di Balzac Communications, di cui è stato il fondatore. Ma, soprattutto, ha maturato in oltre trent’anni un’esperienza straordinaria sul mercato del vino negli USA. Tantissime e prestigiose le sue consulenze, tra le quali basti citare l’Union des Grands Crus de Bordeaux, ma numerose anche le collaborazioni con diverse entità italiane che gli hanno consentito di diventare un grande esperto del sistema-vino Italia. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali “Wine Marketing & Sales: strategie di successo per un mercato saturo”, che ha vinto il Gourmand Award come miglior libro sul vino per professionisti nel 2007. Ma il curriculum di Paul è lunghissimo e non voglio rubare spazio alle sue preziose risposte.
Nel dinamico scenario dell’industria vinicola statunitense e dei mutevoli gusti dei consumatori, mantenere un vantaggio competitivo nel mercato a stelle e strisce rappresenta una sfida sempre più rilevante per le aziende vinicole italiane. Proprio per accendere un faro sulle strategie più efficaci ci siamo rivolti a Paul Wagner, le cui prospettive offrono un’importante visione dello stato attuale del mercato del vino negli Stati Uniti e delle azioni pratiche che le aziende vinicole italiane possono adottare per riuscire a “navigare”.
Circa vent’anni fa ho avuto la fortuna di seguire un suo intervento durante un evento in Sicilia, dove ha dichiarato che, se un produttore italiano avesse voluto conquistare il mercato statunitense, avrebbe dovuto far innamorare i consumatori americani. Questa sua affermazione è ancora valida oggi? Quanto è importante la comunicazione “emozionale” sul mercato americano?
Questa affermazione è ancora valida e non riguarda solo il vino. I consumatori americani acquistano prodotti per motivi emotivi, proprio come fanno i consumatori in tutto il mondo. Apple non vende solo computer: vende uno stile di vita e un’immagine. I produttori di vino devono capire come i consumatori percepiscono il vino, e non si tratta di geologia o precipitazioni, perché i consumatori vogliono una storia che parli di persone reali.
Non puoi raccontare una storia su una cosa: una storia ha bisogno di un personaggio principale per coinvolgere il pubblico. I produttori di vino devono imparare a raccontare la storia del loro vino in modo che conquisti sia il settore commerciale che il pubblico, e i brand che hanno successo hanno fatto proprio questo. Quindi sì, si tratta di “sedurre” i clienti, e troppo spesso le cantine cercano invece di “convincere” i clienti. Le persone non comprano il vino in modo razionale, lo comprano in modo emotivo. Ma la maggior parte degli imprenditori, dei manager del vino non comprendono questo meccanismo!
Dopo molti anni di crescita, gli Stati Uniti (pur rimanendo il principale mercato di vino nel mondo con circa 34 milioni di ettolitri) sembrano aver rallentato e, soprattutto, i giovani sembrano essere meno interessati al vino rispetto alle generazioni precedenti. Quali sono, secondo lei, le ragioni di questa frenata?
Ogni studio sul mercato statunitense mostra che le generazioni più giovani non sono coinvolte nel mondo del vino. Questo rappresenta un problema, ed è una tendenza riscontrata anche in molti altri mercati. Gli studi indicano che i giovani trovano il vino troppo complicato e intimidatorio. L’industria vinicola ha risposto con l’idea assurda che i consumatori debbano imparare di più sul vino per comprenderlo meglio, ma nessuna industria ha mai prosperato dicendo ai suoi consumatori di tornare a scuola!
Spesso paragono il vino alla musica. La musica è complessa quanto il vino, ma Elton John non ha mai suggerito ai suoi consumatori di studiare composizione e armonia per apprezzare meglio la sua musica. Il mondo del vino deve trarre insegnamento da questo paragone. Deve raccontare la storia del vino come una bevanda gioiosa, un’espressione di comunità e comunione, una creazione di amore, famiglia e passione. E deve smettere di parlare di suoli calcarei, fermentazione malolattica e lieviti indigeni.
Per molte aziende italiane, il mercato statunitense continua ad essere il principale punto di riferimento. Tuttavia, quelle che operano in questo mercato da più tempo spesso segnalano una certa stanchezza da parte dei loro importatori e distributori, che sembrano non avere più la stessa forza di un tempo nel promuovere i loro brand. Ritiene che si tratti solo di stanchezza da parte di alcuni importatori storici o di una vera e propria difficoltà delle aziende vinicole italiane nell’investire seriamente nello sviluppo del loro marchio negli Stati Uniti?
Nel mercato statunitense troviamo più di 120.000 vini diversi in vendita. Mentre una generazione fa c’erano migliaia di distributori, oggi ce ne sono molti di meno. E quelli rimasti dispongono di portafogli enormi, letteralmente con migliaia di vini. La matematica è semplice: un venditore deve effettuare dieci o più contatti commerciali al giorno per un distributore con queste caratteristiche.
Gli unici prodotti che ricevono attenzione sono quelli che hanno il potenziale per vendite massicce e profitti enormi, quindi i vini di un produttore italiano con un totale di 450 bottiglie per la sua regione non otterranno molto riscontro. Certo, il consumatore è sopraffatto dalle scelte sugli scaffali, ma anche il distributore è sopraffatto dal numero di prodotti che deve vendere. E non si intravede alcuna soluzione.
L’unica soluzione per qualsiasi cantina, europea o californiana, è trascorrere del tempo sul mercato e fare il lavoro del distributore. Perché i distributori sono troppo occupati per farlo per chi non è un grande produttore di vino.
La discussione sull’importanza o meno del rating dei vini da parte della critica enologica è sempre più accesa; ritiene che questo fattore sia ancora importante per lo sviluppo di un marchio vinicolo negli Stati Uniti?
L’anno scorso, Wine Spectator ha assegnato un punteggio di 90 punti o più a quasi 7.000 vini. I punteggi non sono più il principale motore delle vendite, semplicemente perché troppi vini ricevono punteggi elevati. Tuttavia, i punteggi continuano a servire per rassicurare il consumatore e, in certa misura, il settore. Ad esempio, non attirerai o conquisterai immediatamente i clienti con un vino da 95 punti, ma se hai effettuato azioni di marketing efficaci e creato un legame umano con il cliente, il punteggio rassicurerà che il tuo vino (realizzato da una persona affascinante e interessante, una persona che hanno imparato a conoscere e apprezzare) è di alta qualità.
Ho sempre spiegato che il potere dei punteggi nel mercato statunitense è una funzione del “three tier system”. La comunicazione sul vino attraverso questo sistema è disfunzionale. Il produttore comunica con l’importatore, che comunica con il distributore, che comunica con il team vendite, che comunica con il ristoratore, che comunica con il personale di servizio, che comunica con il consumatore finale. Non sorprende che il consumatore (o chiunque altro!) raramente senta un legame con il prodotto. L’unico messaggio che può penetrare un sistema così complesso è: “96 punti”. Ma è chiaro che quando ogni vino ha un punteggio elevato, il punteggio non è più un modo per differenziare un’azienda dai suoi concorrenti.
La soluzione è creare un programma di comunicazione che racconti una storia vera e memorabile e la diffonda a ogni livello del sistema a tre livelli, tramite media tradizionali, social media e contatto umano diretto con l’intera catena di vendita. È un lavoro impegnativo, ed è per questo che così poche aziende lo fanno.
Lei è anche uno dei principali esperti nel settore del turismo enogastronomico. Crede che questo modello turistico possa ampliare la base dei consumatori di vino negli Stati Uniti e aumentare la loro conoscenza dei valori del vino?
Ricollegandomi alla mia risposta precedente, direi proprio di sì: il turismo enogastronomico è un elemento chiave per costruire una connessione diretta tra la cantina e il consumatore finale. E no, non è perché aumenta la loro conoscenza del vino, ma piuttosto perché fornisce loro un volto umano e una storia umana con cui collegarsi al vino e al brand. Qualsiasi turista alla fine della visita parlerà con entusiasmo non di un luogo, di un edificio, di un vino o di un dipinto. Parlerà di una persona che ha incontrato e del legame umano che ha provato. Questo è il segreto del successo nel turismo enogastronomico e nel marketing del vino.
I turisti del vino non sono a scuola, sono in vacanza. Quello che cercano non è l’istruzione, ma l’intrattenimento. Ed è per questo che il filosofo Marshall McLuhan ha detto che chiunque pensi che istruzione ed intrattenimento non abbiano nulla a che fare tra loro, non sa di cosa parla.
Il fatto triste è che le aziende spendono milioni di dollari per costruire splendide cantine, ma quasi mai forniscono la formazione adeguata ai dipendenti, collaboratori che si confrontano con i visitatori. Non assumono un redattore professionista per scrivere lo script del tour della cantina. Non assumono attori professionisti per consegnare i messaggi del tour. Invece, assumono sommelier per offrire ai visitatori esattamente lo stesso tipo di esperienza che avranno in qualsiasi altra cantina: la stessa spiegazione su come coltivare l’uva, come fare il vino e come degustare il vino. Questo è semplicemente cattivo marketing.
Naturalmente, le cantine dicono di educare i loro visitatori, ma non assumono insegnanti professionisti e non testano i visitatori per vedere se hanno appreso la lezione. Perché? Penso che sia perché non vogliono conoscere la risposta. Come professore, un esame è l’unico modo per sapere se i miei studenti hanno imparato. E invece di costruire un legame stretto con i propri clienti, troppe cantine li congedano pensando di aver fatto un buon lavoro “nell’educazione”. È uno spreco di tempo, denaro e risorse umane.
In conclusione, quali consigli darebbe oggi a un’azienda vinicola italiana per essere competitiva sul mercato statunitense?
Suddividerei la risposta in tre concetti semplici:
- Il primo passo è sviluppare una storia memorabile che susciti interesse umano nei tuoi vini e nel tuo brand: cosa ti rende diverso e perché dovrebbero interessarsene le persone? Elimina ogni menzione di enologia o viticoltura e crea una storia incentrata sulle persone e sulla passione. Nessuno si è mai innamorato di un tipo particolare di terreno. I consumatori non devono sapere come costruire un pianoforte per apprezzare la musica, e non devono sapere che tipo di botti utilizzi per gustare il vino. Una storia memorabile è una storia sulle persone, non sulle rocce, non sulla pioggia, non sulle montagne o sui cloni d’uva: sono le persone che contano.
- Comunica quella storia a ogni livello della rete di distribuzione, dal vertice alla base. Sviluppa relazioni personali con le persone a ogni livello del sistema a tre strati. Utilizza ogni mezzo di comunicazione possibile, dai media passivi come il tuo sito web, che le persone visiteranno tramite i loro telefoni mentre si trovano in un ristorante, ai media attivi come le email al team vendite, note personali ai clienti chiave, messaggi ai tuoi consumatori e visite personali al mercato.
- Nessuna di queste azioni può essere compiuta in un solo giorno: richiedono tempo e pazienza. Ma l’importante è insistere ogni giorno.
L’asset più prezioso della tua cantina non sono le viti o i vini, ma i clienti. Devi coltivarli, comprenderli, coccolarli e dar loro attenzione costantemente. Perché l’obiettivo non è vender loro i tuoi vini; è farli diventare missionari, evangelisti del tuo marchio. E se riesci a farlo, avrai successo, anche in un mercato difficile come quello del vino negli Stati Uniti.