Dopo essersi lasciato alle spalle una breve ma brillante carriera nel campo dell’informatica, il singaporiano Wai Xin Chan ha deciso di aprire una sua agenzia di comunicazione nel settore del vino, la Wine Xin. Dopo essere diventato un Certified Wine Educator (CWE), ha frequentato la Vinitaly International Academy conseguendo nel 2015 il certificato di Italian Wine Ambassador e nel 2016 quello di Italian Wine Expert. Gli abbiamo dunque chiesto di guidarci alla scoperta di Singapore dal punto di vista del vino italiano.

Come si presenta lo scenario del vino a Singapore?
In sostanza i consumatori si dividono in due gruppi. Il primo è costituito da consumatori “premium”, normalmente over 50, interessati a vini come Bordeaux, Borgogna e Super Tuscans. Frequentano le aste e acquistano vini “en primeur”. Tendenzialmente sono poco inclini a provare vini di varietà e regioni vinicole poco conosciute. Il secondo gruppo è invece più sensibile al prezzo ma anche più desideroso di sperimentare. Si tratta di giovani tra i 30 e i 40, ben educati, spesso all’estero, in generale meno disposti a spendere grandi somme per vini costosi.
Per quanto riguarda i vini importati, in termini di volumi i primi tre paesi produttori sono Australia, Francia e Cile, mentre l’Italia si colloca al sesto posto.

Cosa sanno i singaporiani del vino italiano? Qual è il suo attuale posizionamento?
I vini italiani sono ovviamente sempre molto presenti nei ristoranti italiani, ma al di fuori di questo contesto i vini che si incontrano più frequentemente provengono dalle regioni più famose: Toscana, Veneto e Piemonte. La maggior parte delle persone associa il vino italiano al vino rosso soprattutto Brunello, Amarone e Barolo. I vini bianchi invece non godono della stessa reputazione e molto spesso la gente conosce solo Moscato, Pinot grigio e Prosecco. Insomma, la strada per introdurre a dovere il vino italiano a Singapore è ancora lunga.

Quali sono i principali ostacoli che deve fronteggiare un produttore italiano nell’approcciarsi al mercato di Singapore? Aveva accennato ad un problema relativo alla tassazione sugli alcolici. Potrebbe spiegarci meglio?
In realtà l’ostacolo più grande da affrontare è il fatto che le persone non conoscono i nomi e la geografia italiana. Milano, Roma o Firenze sono famigliari perché mete turistiche abbastanza comuni. Ma in pochissimi, ad esempio, sanno che le Cinque Terre sono in Liguria e ancor meno sono a conoscenza del fatto che in Liguria si producono vini molto interessanti.
La questione delle tasse sugli alcolici è meno complicata di quanto sembri. A Singapore è in vigore un sistema di tassazione legato al livello di alcol contenuto nel prodotto. Pertanto un vino che ha il 15% di alcol pagherà una tassa pari a 10 dollari singaporiani. Questa tassa non comprende il Cost, Insurance and Freight che ricopre circa il 7% del valore totale. In questo senso a qualsiasi vino che abbia una percentuale alcolica del 15% viene applicata la stessa tassa. Perciò la gente è diffidente verso i vini troppo economici ed è disponibile a spendere un po’ di più per un vino percepito come più qualitativo. Ad esempio, la maggior parte dei consumatori è disposta a pagare dai S$40 ai S$100 (€28- €60) per una bottiglia di vino acquistata in negozio.

Qual è il target sul quale bisognerebbe focalizzarsi?
Secondo me la maggior parte dei produttori italiani dovrebbero guardare ai Millennials e ai Generation X. Questi si inseriscono perfettamente in quel secondo gruppo di consumatori a cui ho accennato prima (quelli sensibili al prezzo ma disposti a sperimentare), i quali tendono anche a vedere il vino più come uno stile di vita che come un bene di lusso. In base allo stato attuale di diffusione del vino italiano a Singapore, credo che riuscire ad intercettare questi segmenti possa dare migliori risultati.

Secondo la Sua opinione, cosa bisognerebbe fare per promuovere al meglio il vino italiano a Singapore?
Sono convinto che l’unione fa la forza. Mi spiego. Invece che venire e fare promozione individualmente, le piccole e medie aziende dovrebbero venire in gruppi in modo da creare un impatto collettivo rilevante. Permettere alle persone di degustare una stessa varietà di uva ma prodotta da aziende diverse e con stili diversi, farebbe meglio comprendere loro di cosa si tratta. A esempio, il Verdicchio potrebbe essere presentato da 6-8 diverse cantine, magari in versione ferma, spumantizzata e passita, e si potrebbe illustrare la differenza tra un Verdicchio di Jesi e un Verdicchio di Matelica. Solo in questo modo la gente potrà capire che non c’è un solo tipo di Verdicchio.

Quale altro consiglio pratico potrebbe dare ai produttori italiani?
Sicuramente i Consorzi dovrebbe essere più attivi nella promozione dei propri vini e delle proprie regioni all’estero. Ancora molto deve essere fatto perché i vini italiani meno conosciuti lascino un’impronta duratura nel Sud-est asiatico. Altro suggerimento è quello di mettere in correlazione le varietà autoctone con le varietà internazionali. Ad esempio, potrebbe essere molto utile spiegare che nel Refosco dal Peduncolo Rosso si trovano sentori di frutti rossi ed un carattere succoso simili al Merlot. So che molti produttori non saranno d’accordo, ma questo è un buon modo che far si che i consumatori inizino a familiarizzare con questi vini, prima di saperne di più.