Il nostro recente articolo sui rischi dell’evoluzione del vigneto italiano (link) ci ha regalato numerosi apprezzamenti (e questo fa sempre piacere) e ci ha però anche stimolato a proseguire nella nostra analisi.
Questa volta ci siamo soffermati (sempre grazie all’elaborazione dei dati realizzata dal direttore de Il Corriere Vinicolo, Carlo Flamini) sull’evoluzione in questi ultimi cinque anni dei vitigni autoctoni. Su questo fronte vi sono aspetti contraddittori, alcuni facilmente comprensibili, altri meno.
Ad esempio risulta molto forte il calo dei Lambruschi che hanno perso quasi 2.700 ettari (-24,2%) in cinque anni. Indubbiamente si tratta di un dato che testimonia da un lato, auspicabilmente, la volontà di razionalizzare il vigneto “Lambrusco” cercando di valorizzare soprattutto le aree più vocate, ma dall’altro anche una difficoltà oggettiva di ridare un’immagine più autorevole ad un nostro vitigno e vino storico. Ci piacerebbe leggere analisi più approfondite sulle potenzialità del Lambrusco (o meglio dei Lambruschi) e sulle strategie più adeguate per dare posizionamenti e reputazioni adeguate ad uno dei re della nostre vitienologia (noi qualche idea l’abbiamo).
Sullo stesso piano potremmo inserire anche il calo della Barbera che ha perso quasi 3.000 ettari in un quinquennio. In calo anche un altro storico vitigno piemontese come il Dolcetto che ha perso oltre 500 ettari. Sul fronte vitienologico piemontese va evidenziato come alla crescita del Nebbiolo (+500 ettari) fa da contraltare la diminuzione di alcuni vitigni “minori” (come il Dolcetto appunto o la Barbera anche se in questo caso non da ascrivere solo al Piemonte) frutto probabilmente anche di una scarsa valorizzazione di alcuni vini storici di questa terra. E’ sempre più raro, infatti, sentire parlare di Dolcetto, Grignolino che hanno fatto la storia enologica di questa grande regione del vino italiana.
Eppure anche per questi storici vitigni/vini italiani da tempo si parla di opportunità di rilancio con alcuni esempi eccellenti da parte di alcune aziende.
Purtroppo, però, spesso queste virtuose esperienze aziendali non hanno un reale seguito nei territori e più in generale nella strategia di valorizzazione di alcuni nostri vitigni storici. Passando ai vitigni bianchi, del calo della Garganega avevamo scritto nell’articolo precedente, qui volevamo evidenziare la fortissima perdita di superficie dei Trebbiani che hanno registrato il calo maggiore tra tutti i vitigni, oltre 20.000 ettari. Un calo per certi aspetti inevitabile, in particolare, ad esempio in denominazioni come il Soave dove la scelta della Garganega al 100% ha convinto negli anni un sempre maggior numero di produttori. Meno spiegabile se si guarda all’Abruzzo viste le potenzialità incredibili di questo vitigno in quella terra. Ma più in generale, anche in questo caso, abbiamo la sensazione che parte di questa decrescita sia anche da ascrivere alla difficoltà di qualificare e valorizzare alcuni nostri vitigni storici. In fortissimo calo anche le nostre Malvasie che in soli cinque anni hanno visto una riduzione di oltre 7.200 ettari (-44,6%). Sicuramente l’universo delle Malvasie in Italia è vasto e quindi non è facile trovare chiavi di letture univoche. Lascia però perplessi che vitigni come le Malvasie, che a nostro parere rispecchiano in gran parte tendenze di consumo attuali e moderne (dolcezze ed acidità in straordinario equilibrio senza eccessi di aromaticità). Ci viene in mente, ad esempio, la Malvasia di Candia che sui Colli Piacentini ha trovato un habitat straordinario e che, soprattutto nella versione secca è capace di regalare vini di incredibile eleganza e bevibilità. Forse, proprio in questo caso, non aiuta il proliferare di diverse tipologie interpretative del vitigno (dal dolce, al secco, allo spumante) che genera confusione nel mercato e tra i consumatori.
Sul fronte della crescita, invece, molto evidente quella di Primitivo e Negramaro che hanno registrato un aumento rispettivamente del 46,6% e del 5,5%. In cinque anni praticamente il Primitivo ha raggiunto la superficie del Negramaro (16.321 ettari il primo e 17.504 il secondo). L’unica osservazione che ci sentiamo di fare su questa evoluzione “pugliese” e che ci auguriamo che non sia solo modaiola ma che sia supportata da una reale valorizzazione di questi due vitigni che indubbiamente hanno una “modernità” invidiabile che però non può essere svilita o banalizzata (l’esempio del Nero d’Avola evidenziato nello scorso articolo ci sembra eloquente).
A breve affronteremo l’evoluzione invece dei vitigni internazionali dove sono altrettanto evidenti alcune, almeno a noi, contraddizioni.

Autoctoni sì, autoctoni no
Ritorniamo sul tema dell’evoluzione “varietale” del vigneto italiano che evidenzia, a nostro parere, alcune preoccupanti contraddizioni