Spesso ci domandano come mai ci occupiamo così tanto del mercato statunitense. Per due ragioni sostanziali: la prima perché si tratta del mercato più importante al mondo (con oltre 30 milioni di ettolitri di vino consumato all’anno è diventato da alcuni anni il primo Paese consumatore al mondo); la seconda perché è uno dei pochi mercati che mette a disposizione, in maniera trasparente, i propri dati.
E quando parliamo dei dati non ci riferiamo solo a quelli macro-economici (evoluzione delle produzioni, dei consumi, ecc.) ma anche e soprattutto di quelli aziendali (fatturati delle aziende, i prezzi dei vini, le etichette più vendute, ecc.).
Si tratta, inoltre, di informazioni che vengono diffuse con trasparenza e continuità e non necessariamente solo attraverso l’acquisto di onerose indagini di mercato.
Ovviamente non si può pensare che gratuitamente sia possibile acquisire qualsiasi tipo di informazione ma sono comunque numerosi i dati liberi a disposizione sulla rete.
E questo anche perché sono le aziende stesse a divulgare nella loro comunicazione i loro numeri, i loro trend di mercato.
Questo rappresenta un modello di informazione e comunicazione profondamente diverso dal nostro. Tuttoggi in Italia, ma vale in parte anche per la nostra vecchia Europa, è molto difficile avere informazioni certe sui dati aziendali (dai quantitativi prodotti, ai fatturati realizzati, per non parlare dei prezzi).
Spesso, ad esempio, quando rivolgiamo ad alcune aziende anche la semplice domanda:”Ma a quanto ammonta la vostra produzione?”, ci sentiamo rispondere con un eloquente “dipende”. Dipende da cosa? Che parte della tua produzione può essere proveniente da tuoi vigneti e altra no? Che hai una società di produzione e una commerciale di distribuzione? Che non produci nulla tu direttamente ma commercializzi prodotti di altri?
Nei confronti dei “numeri” nel nostro Paese c’è storicamente e culturalmente un approccio “riservato”, di chiusura come se dietro quei dati si celassero segreti inconfessabili.
E’ noto, inoltre, come sia difficile anche per autorevoli società di analisi di mercato, avviare ricerche su alcuni temi che necessitano la fornitura (assolutamente anonimizzata) delle informazioni da parte delle aziende.
Recentemente, a questo proposito, abbiamo partecipato ad un’indagine sullo sviluppo dell’export di un’importante denominazione italiana. Era necessario chiaramente capire dalle aziende quali erano i mercati dove si stava sviluppando maggiormente il loro export fornendo almeno i dati quantitativi (la speranza, vana, era quella di avere pure quelli relativi al valore esportato). La percentuale di risposta da parte delle aziende è stata molto bassa e questo ovviamente ha inficiato il risultato complessivo dell’indagine.
Eppure questo tipo di trasparenza (anche quella che fuoriesce da analisi per le quali deve essere garantita ovviamente l’anonimità) sarebbe utile per tutto il comparto, per capire non solo come la filiera si sta evolvendo ma anche quali strategie adottare.
Per esempio, tornando agli Usa, è interessante capire concretamente il significato della “premiumization” del loro mercato. Quali sono le etichette che in effetti dimostrano questa tendenza, su quali fasce di prezzo? Con quale strategia di comunicazione vengono promosse?
E non è difficile scoprire (fonte Impact Databank) che lo scorso anno la fascia di vini sopra i 10 dollari negli Usa è cresciuta del 5,8% (oltre 615 milioni di bottiglie). Ma a crescere sono stati soprattutto i brand più “lussuosi” (dai 14 dollari in su) che hanno registrato aumenti nel medesimo periodo del 7,3%.
Semplice anche scoprire quali sono stati i brand più venduti nella fascia dai 14 dollari in su, a partire da J Lohr Estates (della californiana J Lohr Vineyards & Wines, ed in particolare con i vini Seven Oaks Cabernet Sauvignon and Riverstone Chardonnay) che ha registrato vendite per oltre 13 milioni di bottiglie; seguita dal brand La Crema (della californiana Jackson Family Wines, in particolare con le sue etichette Sonoma Coast Chardonnay e Pinot Noir) con circa 10,3 milioni di bottiglie; al terzo posto Diamond Collection (siamo sempre in California con la Francis Ford Coppola Presents, ed in particolare con le etichette capeggiate dal Claret e a seguire Chardonnay, Cabernet, Pinot Noir e Merlot), con 9 milioni di bottiglie; unica etichetta non californiana tra le prime 5 è la neozelandese Kim Crawford della multinazionale Constellation Brand (di poco sotto le 9 milioni di bottiglie); al quinto posto Rodney Strong (della californiana Rodney Strong Wine Estates) con circa 8,2 milioni di bottiglie vendute.
Se poi si vuole sapere anche in quali canali sono state vendute, J Lohr Estates non ha difficoltà a dichiarare a Shanken News Daily (letto da decine di migliaia di addetti nel wine business) che si tratta all’80% di canali off-premises.
Si può essere trasparenti senza paura di perdere quote di mercato fornendo informazioni aziendali riservate? Non solo si può, a nostro parere, ma può essere un vantaggio per la crescita imprenditoriale di tutto il sistema