Scriviamo questo articolo mentre da New York ci stiamo spostando a Los Angeles per l’ultima tappa di questo lungo tour che prima ci ha portato in Canada (in British Columbia e Alberta) e poi nella east e adesso west coast degli Usa.
Dieci giorni molto intensi ma anche molto positivi che hanno confermato alcune nostre sensazioni che spesso condividiamo con i nostri lettori.
La prima “sensazione” che riportiamo ancora una volta a casa è che l’incredibile eterogeneità vitienologica del nostro Paese ha un valore inestimabile. Ma è proprio quest’ultimo aggettivo, inestimabile, che rischia di essere il vero problema.
E’ come quando trovarono nei fondali del bel mare calabrese i due straordinari Bronzi di Riace, tutto il mondo rimase a bocca aperta per tale magnificenza, ma nessuno era in grado di dare un preciso valore a delle opere così immense.
Proprio in questi casi, fateci caso, si parla di valore inestimabile, appunto.
Ma quando questo aggettivo lo si usa per un prodotto come il vino allora è un problema perché significa che non siamo stati ancora in grado di mettere a valore un pregio così importante e unico come quello della “diversità”.
L’ironia della sorte è che tutti ce lo riconoscono. Abbiamo rivolto a decine dei nostri interlocutori in questi giorni sempre la medesima domanda:”Quale è a tuo parere il valore più importante del vino italiano?”. E la prima risposta al 90% è stata “the amazing diversity”, l’incredibile diversità.
E più presentavamo vini meno noti all’audience canadese ed americana e più questa percezione aumentava.
Ma possiamo accontentarci solo dell’essere percepiti come unici, originali, diversi, senza che questo abbia una chiara e soprattutto conveniente ricaduta sul posizionamento, reputazione dei nostri vini, delle nostre denominazioni e di conseguenza sulle vendite delle nostre aziende?
La risposta ovviamente è no.
Ma come possiamo allora prenderci tutti questi complimenti e poi anche, però, “passare alla cassa”?
La risposta non è semplice, se lo fosse saremmo tutti più ricchi, anche noi di Wine Meridian. Ma dobbiamo provare a dare delle risposte che abbiano un senso, almeno per orientarci meglio.
E allora prima di tutto pensiamo che non possiamo più avere dubbi sulla nostra forza, a prescindere dal territorio da cui proveniamo.
Assistiamo ancora a troppi dubbi, perplessità da parte di alcuni produttori che quasi si scusano di non avere nel loro portfolio Prosecco od Amarone, Barolo o Brunello.
Ragazzi, basta complessi, tiriamo fuori un sano e soprattutto “proficuo” orgoglio.
L’altro consiglio che ci permettiamo di dare è quello del “megafono”. Quando si ha la voce più debole e si è circondati da un sacco di gente urlante per farvi sentire, dobbiamo andare oltre i nostri limiti vocali. Per noi il “megafono” del vino italiano sono le aggregazioni, senza nessuna precisa distinzione, da quelle più territoriali (soprattutto se si vuole fare emergere il valore della denominazione) ma anche quelle “trasversali” (tra aziende di diversi territori produttivi) capaci di consentire anche alle piccole realtà di essere più visibili nel mondo.
Altro suggerimento è quello dell’ascoltare, dell’essere curiosi invece di avere solo l’ansia di raccontarsi.
Troppe volte continuiamo ad assistere produttori che raccontano chi sono, cosa fanno senza però capire prima chi è il proprio interlocutore e le sue aspettative.
Le domande sono talvolta più preziose di certe risposte preconfezionate (torneremo ancora su questo aspetto).
Infine, ma solo per il momento, perché stiamo atterrando a Los Angeles e le hostess ci guardano in cagnesco, studiare, studiare e ancora studiare nuove forme di promozione. Il mondo sta cambiando ad una velocità impressionante, veniamo in Usa e Canada ogni tre mesi e ogni volta scopriamo cose diverse. E questo vale per l’Asia ma anche per la nostra vecchia Europa (lo dimentichiamo troppo spesso) e non si può immaginare che tutto si muove e noi rimaniamo fermi.
A presto per il resto.