Prendiamo spunto da un recente post scritto da Lorenzo Biscontin, uno dei più acuti osservatori del mercato del vino, sul blog vinix.com. Il tema erano i problemi attuali dell’Asti Spumante ma quello che a noi interessa approfondire in questo articolo è la questione della possibilità che una tipologia di vino possa essere percepita come una sorta di commodity. Ricordiamo che per commodity si intende un bene per cui c’è domanda ma che è offerto senza differenze qualitative sul mercato ed è fungibile, cioè il prodotto è lo stesso indipendentemente da chi lo produce,
Secondo Biscontin l’idea del vino commodity “è uno dei più grandi equivoci ricorrenti nel vino italiano. Il vino non è quasi mai una commodity per il consumatore finale. Ovviamente all’interno di un marchio, i prodotti con il medesimo marchio sono totalmente fungibili, ma questo non fa di loro una commodity. Mi spiego, se voglio comprare una Range Rover Evoque e vado a vederla in tre concessionari diversi la comprerò da quello che mi fa il prezzo più basso, ma questo non fa della Range Rover Evoque una commodity. Continuerò a ripeterlo finchè avrò voce: l’Asti Spumante non è una commodity, il Prosecco non è una commodity, il Pinot Grigio IGT delle Venezie non è una commmodity, il Chianti Classico non è una commodity, il ……. Proseguite voi a piacere. Perché è importante ripeterlo? Perché se adotto delle strategie da commodity per un marchio che non lo è, i problemi si aggraveranno invece di risolversi. Una commodity si basa sul fatto che la domanda sia rigida al prezzo, quindi una strategia di controllo dell’offerta permette di aumentare l’incasso totale dei produttori e la massimizzazione del profitto si ottiene attraverso la massimizzazione dell’efficienza produttiva”.
Ringraziamo Biscontin per l’interessante spunto di riflessione che condividiamo in pieno anche se, dobbiamo ammetterlo, spesso abbiamo la sensazione che se il vino non è mai una commodity per il consumatore talvolta lo è nella testa di alcuni produttori.
E da qui partono molto delle distorsioni del mercato che subiscono numerose denominazioni italiane.
Perché se è vero, come giustamente sottolinea Biscontin, che è inevitabile che all’interno di una medesima denominazione vi sia una variabilità di prezzi (che porta dal trade al consumatore a scegliere il prezzo migliore) e altrettanto vero che se questa forbice è estremamente ampia la reputazione e il posizionamento di una specifica tipologia di vino sarà inevitabilmente appiattita verso il basso. Non troveremo mai nei prezzi di vendita della Range Rover Evoque differenze così sostanziali tra concessionario e concessionario di come si trovano invece anche all’interno di denominazioni prestigiose.
E ci dispiace dirlo ma a questo punto il rischio di essere percepiti come una commodity è una possibilità reale.
E’ chiaro che liquidare l’annoso problema del prezzo dei vini consigliando i produttori di evitare sempre la cronica rincorsa al saldo può apparire una bella ma demagogica affermazione, ma è altrettanto vero che la variabilità di prezzi all’interno di molte denominazioni appare oggi sempre più ingiustificabile nei mercati.
Su questo fronte è praticamente fallita in Italia qualsiasi forma di accordo interprofessionale o di semplice osservatorio prezzi ed il risultato finale è ormai una anarchia assoluta sulla costruzione dei prezzi delle nostre denominazioni.
Al mercato è stato affidato l’onere del giudice supremo e assoluto e quasi sempre arriviamo ad esso con, scusateci l’espressione forte, le “mutande calate”.
Abbiamo visto in questi ultimi decenni quanto è avvenuto in molte altre produzioni tipiche del nostro paese, a partire dalla nostra eccellenza ortofrutticola, da tempo ormai considerata come una commodity.
Sperare che il vino rimanga immune in eterno a questo rischio ci sembra una pericolosa illusione.
Ma per difenderci da questo rischio i primi a capirlo devono essere i produttori.