In questo articolo abbiamo il piacere di dare spazio al pensiero di un nostro lettore che ci ha onorato di condividere con noi i propri dubbi e lanciare attraverso di noi un accorato appello affinchè, nella selezione delle risorse umane, si presti più fede ai valori che si dichiarano.
La realtà dimostra che, pur parlandosi molto di soft skills, si fa fatica a trovare aziende che si dimostrino veramente interessate alle competenze trasversali dei propri candidati; le aziende tendono ancora a focalizzarsi molto sulle competenze tecniche, le abilità pratiche, le esperienze gestionali, in poche parole l’esperienza dimostrabile “in pratica” e molto meno sulle attitudini immateriali, anche supportate da investimenti del candidato in formazione che ne dimostrano l’approfondimento.
Le molte risorse che incontriamo ce lo testimoniano in modo chiaro: durante i colloqui di selezione ci si sente sempre porre domande attinenti all’esperienza tecnica, del tipo “quanti clienti gestisce in quanti Paesi” oppure “quanti anni di esperienza ha maturato nel Paese x”, mentre sono ancora rari i casi in cui il focus si pone concretamente sulla capacità di lavorare in contesti di incertezza, sulla gestione dello stress, sulla capacità di gestire progettualità di gruppo, sull’efficacia dell’esposizione in pubblico, sulle abilità negoziali e molto altro.
E se questi tipi di competenze fanno la differenza per qualunque risorsa aziendale, per le figure manageriali diventano requisiti essenziali, da cui dipende la capacità di gestire sistemi sempre più complessi, sempre più interconnessi.
La figura del manager, soprattutto in contesti medio-piccoli, deve avere attitudini trasversali che gli permettano di coordinare, di interloquire con flessibilità, prima ancora che di fare; il manager deve possedere la capacità di condividere obiettivi, di creare coinvolgimento nei propri gruppi di lavoro.
Sfortunatamente, invece, gli sforzi che alcuni candidati fanno per formarsi sul fronte delle competenze trasversali sono ancora scarsamente valorizzati.
Non è purtroppo frequente che in sede di colloquio il candidato si senta rivolgere domande del tipo “come mai ha deciso di formarsi nel public speaking” oppure “quali benefici crede che le abbia dato seguire un corso sul problem solving”.
Allo stesso modo si riscontra che anche l’aspetto motivazionale è relegato in secondo piano rispetto alle competenze tecniche certificate, mentre dovrebbe essere un cardine essenziale per delineare il profilo di un candidato.
La formazione, ad esempio, è un parametro che racconta molto della mentalità e della motivazione di un candidato: eppure, si mette ancora troppo poco in luce, nelle attività di recruiting, lo sforzo compiuto da una risorsa per aggiornarsi, per migliorarsi, per andare oltre le proprie strette competenze tecniche.
Provocatoriamente quindi il nostro lettore si domanda: ha senso per un candidato continuare ad investire in formazione, oppure la formazione è destinata a rimanere relegata nella categoria degli “hobby”? Conviene rimanere nell’ignoranza e spendere in altro modo il proprio tempo e i propri soldi?
Noi abbiamo la nostra risposta: le competenze trasversali sono un tema che ci affascina e che orienta fortemente il nostro modo di selezionare le risorse e di formarle, sia che parliamo dei nostri collaboratori, sia che parliamo delle risorse delle nostre aziende clienti.
Anche la nostra attività consulenziale è fortemente influenzata dalla convinzione che, oltre alle competenze tecniche, siano da mettere in campo attitudini personali, competenze trasversali, skill immateriali che, purtroppo, non si apprendono in corsi scolastici o accademici.
Il nostro interesse per le soft skills non è una scelta di campo, ma una convinzione scaturita sul campo, dalle decine di situazioni in cui abbiamo visto curricula tagliati a perfezione su un profilo di ricerca, rivelarsi non rispondenti alle attese.
Ma proprio perché siamo dei sostenitori dell’importanza delle competenze immateriali, ci rammarichiamo del modo in cui, a volte, il tema entra in discorso con leggerezza e superficialità.
Ci schieriamo, in altre parole, contro l’uso terminologico delle soft skills a mo’ di tormentone, quindi contro l’abuso di un’espressione a cui non faccia riscontro una reale convinzione.
Ma non abbiamo paura di porre la domanda, scomoda e provocatoria, che pone il nostro lettore, sperando che interroghi coloro che sono responsabili dei processi di selezione, e che nei colloqui di lavoro, un po’ alla volta, la parola “quanto” lasci sempre più spazio alla parola “come”.