In una recente caldissima serata sono entrato in un bel locale nello splendido centro storico di Lucca. Era pieno di giovani e ai tavoli c’erano bicchieri pieni di liquidi dai più svariati colori. Dietro al bancone tre giovani, due ragazzi e una ragazza, perfettamente coerenti con loro clientela.
Io ero l’unico intruso, capitato là quasi per caso. Ma questo mio senso di disagio è durato pochissimo perché Mario (è il nome inventato che ho dato al bartender che mi ha servito), vedendomi smarrito leggendo la lunga lista di cocktail che proponeva il suo locale, ha iniziato a farmi delle semplici domande: “Quali preferenze ha come sapori (più dolci, più amari…)? Preferisce cose più fruttate o speziate? Gusti forti o delicati?”. Poi in un minuto mi ha fatto una semplice ma divertente lezione sulla differenza fra un cocktail base Campari (stile Americano) o base vodka o Martini. In poco tempo mi sono sentito in grado di fare una scelta senza timori, nonostante la mia tutt’oggi scarsa cultura in materia di bevande alcoliche che non si chiamino vino.
Ho bevuto due cocktail spendendo quasi trenta euro e sono uscito felice (non ironizzate, ero perfettamente lucido). Uscendo, ho guardato i numerosi bicchieri sui tavoli dei giovani clienti e, facendo un veloce calcolo, ho compreso che stavano spendendo parecchi soldi, molti di più, probabilmente, di quanto avrebbero speso scegliendo vini anche abbastanza importanti.
Finita la serata in compagnia di un’importante azienda vitivinicola toscana sono andato a dormire, ma prima ho dato un’occhiata al mio account di LinkedIn. E, quasi fosse un gioco del destino, mi sono imbattuto in un post di Dominique Antognoni di Good Life che già dal titolo metteva i “brividi”: “Ma che sorpresa, il vino non attira le nuove generazioni e facciamo pure finta di non capire i motivi”.
Il post poi diventava ancor più crudo: “Ovviamente la colpa non è di chi lo comunica e di chi scrive dell’argomento, perché da queste parti le colpe sono sempre degli altri, mentre i meriti sono nostri perché noi siamo fantastici e professionali. Già me li vedo, i boriosi di mestiere: “Noi informiamo sempre”. Ecco, il guaio è proprio questo: la sciatteria e i modi ministeriali, il nozionismo che sta sui cosiddetti a tutti, figuriamoci ai giovani, ma guai a farlo notare”.
Poi Dominique tira in ballo proprio il mondo dei cocktail: “Sta di fatto che gli under 30 preferiscono i cocktail e va detto che negli ultimi anni non si serve più acqua colorata, bensì degli aperitivi davvero di spessore. I locali che hanno aperto di recente, puntando proprio sui cocktail, vanno da dio. L’ultimo è Carico, ormai una case history: la ricetta in sé è semplice, tapas e drink, gli incassi da paura.
È tutto molto cool, veloce, immediato, fresco ed emotivo, ti si illuminano gli occhi. Per le stesse persone che spesso consumano due o più drink a sera, pagando non meno di 40-50 euro complessivamente, il vino invece viene considerato qualcosa di noioso, palloso, forse anche obsoleto”.
Basta, mi fermo qui, anche se il post di Dominique tirava ancora dei pugni notevoli a tutto il nostro mondo della comunicazione del vino.
Un’analisi cruda, spietata – magari anche un po’ ingenerosa nei confronti di quei pochi che cercano di comunicare il vino in maniera diversa – ma, a mio parere, stramaledettamente vera.
Ci voleva, probabilmente, una persona che non viene dal nostro mondo per spiattellarcela in faccia così senza filtri, con un uppercut preso a freddo.
Ma Antognoni ha ragione e non fa sconti a nessuno, nemmeno a quei “produttori… didattici, lenti, pedanti, parlano di tannini, terre, graduazioni e soprattutto tengono a dirti che loro fanno il vino come si deve (gli altri invece, eh), raccontandotelo per quelle dieci ore di seguito con il ritmo di uno che parla della riproduzione dell’orso polare”.
Si, vabbè, per fortuna non tutti sono così… ma lo siamo in tanti. Sì, mi metto anch’io in mezzo e non mi salva il fatto che da anni predico la necessità di cambiare il modo di comunicare il vino. Lo predico ma non dico come e allora serve a poco denunciare se poi non si indicano alternative.
Il problema è che siamo tutti, in un modo o in un altro, vittime del post scandalo del metanolo, con la sindrome di dover spiegare prima di tutto e soprattutto quanto siamo bravi a produrre vini di qualità.
A Mario non interessava un piffero vendermi un certo tipo di brand alcolico; voleva prima di tutto farmi sentire compreso, individuare gli spiragli per fare entrare il suo messaggio e coinvolgermi nel mondo dei cocktail che sarà anche affascinante ma ha molte meno storie interessanti da raccontare rispetto al vino.
Noi siamo pieni di storie incredibili che potremmo raccontare ma da decenni ne raccontiamo solo una, sempre maledettamente uguale, al punto che un Americano è diventato più originale di un Nero d’Avola.