È incredibile come alcune analisi, anche quando la fonte è altamente autorevole, passino quasi inosservate. Nell’ultima edizione di Vinitaly, ad esempio, il responsabile dell’Osservatorio del vino di Unione Italiana Vini Carlo Flamini ha presentato una ricerca di IWSR/Wine Intelligence (probabilmente il più importante osservatorio delle dinamiche delle bevande alcoliche al mondo) dal titolo “The Way to North America: presente e futuro del vino italiano” dove, tra le tante cose, emerge che l’88% dei maggiori esperti del trade americano considera in costante diminuzione il mercato “classico” del vino.
Per mercato “classico” del vino si intende quello determinato in particolare dalla generazione dei baby boomers (nati negli anni ‘60) che vedevano nel nettare di bacco la bevanda “esclusiva” delle loro scelte “alcoliche”. Con le nuove generazioni (Gen Z e Millennials), il vino, invece, è diventato un’opzione tra le tante all’interno di un portfolio misto di bevande alcoliche.
Non è una notizia da poco ed il risultato, in fondo, non si differenzia di molto con quanto sta succedendo in tutti i mercati mondiali (a partire dal nostro Paese dove, da alcuni anni, i consumatori saltuari di vino hanno abbondantemente superato i “quotidiani”).
E sempre l’indagine di IWSR/Wine Intelligence faceva emergere come le prime due motivazioni all’acquisto dei giovani americani siano il lifestyle (88%) e il benessere (63%).
Le principali alternative al vino sono rappresentate, a pari merito (69%), da RTD (ready to drink) e cocktail.
L’ennesima dimostrazione che avalla quanto avevo scritto nell’editoriale della scorsa settimana denunciando una grave responsabilità anche da parte della comunicazione del vino, sia da parte dei cosiddetti comunicatori (giornalisti, sommelier, influencer, blogger, ecc.) che delle imprese, che faticano ad adattare i loro contenuti comunicativi alle attuali aspettative dei giovani consumatori.
Questa mia valutazione ha raccolto numerosi consensi, dei quali peraltro non posso compiacermi visto il rischio che corre il consumo del vino, e le obiezioni sostanzialmente si concentrano in un unico denominatore comune: non è vero che i giovani si stanno allontanando dal vino perché spaventati da una comunicazione troppo complessa, elitaria o noiosa e lo dimostra il numero rilevante di iscritti ai corsi Ais, Fisar ecc… anche di giovane età.
Pertanto, se il parametro per valutare l’interesse dei giovani consumatori al vino è il numero di iscritti ai vari corsi legati alla cultura del vino, sinceramente faccio fatica ad essere ottimista.
Si tratta, infatti, seppur di una fascia autorevole di wine lovers, di numeri che purtroppo non testimoniano minimamente l’interesse dei giovani al vino.
Qualche migliaio di giovani interessati a comprendere meglio l’impatto della fermentazione malolattica sulle caratteristiche del vino, infatti, non può essere considerato un fattore sufficiente per ritenere sbagliato bollare come scarsamente efficace l’attuale comunicazione del vino.
È evidente, ci tengo a precisarlo ulteriormente, che nessuno (tanto meno il sottoscritto) vuole ergersi a giudice supremo della comunicazione del vino italiana. Sono ben cosciente di quanto sia difficile costruire un nuovo modello comunicativo, definire nuovi contenuti, analizzare più in profondità le aspettative delle giovani generazioni.
Ma il mio appello è volto, quanto meno, affinché il nostro settore sia disposto ad affrontare una riflessione e non si chiuda a riccio in difesa della corporazione dei comunicatori del vino, alla quale, tra l’altro, appartengo assumendo la mia quota di responsabilità.
Qualche lettore, che ringrazio, compresa qualche azienda, mi sta inviando degli esempi di nuove modalità comunicative. È indubbio che esistano dei tentativi virtuosi ma ritengo sia importante andare oltre qualche sparuta case history al fine di ampliare il bacino di nuovi contenuti comunicativi.
E per arrivare a tutto ciò, credo che sarebbe preziosa la costruzione di think tank dove riunire più competenze, anche al di fuori del nostro mondo del vino, per poter analizzare più in profondità la problematica ed iniziare a suggerire alcune nuove vie.
Continuare a dirci (nei contesti dove la maggioranza dei presenti sono addetti ai lavori) quanto siamo bravi non solo non serve a nulla ma rischia di diventare sempre più pericoloso.