Lamberto Frescobaldi, neo presidente di Unione Italiana Vini, ha inserito nei suoi tre punti programmatici principali la riorganizzazione delle denominazioni di origine italiane.
Potremmo definirla una sfida ciclopica, data la “condizione” delle nostre denominazioni di origine che dalla fine degli anni ’60 hanno dato mostra di una prolificità che sarebbe veramente invidiabile se stessimo parlando della situazione demografica del nostro Paese.
Sappiamo tutti le ragioni dell’alto indice di fecondità delle denominazioni italiane: abbiamo da tempo compreso che non è stato certo il mercato a farle crescere, bensì una sorta di “megalomania politica” che ha fatto pensare ad alcuni che arrivare ad ottenere un brand territoriale nel vino fosse una straordinaria dimostrazione di forza, in gran parte però fine a se stessa.
Un po’ come dare un nome ad una stella, che nella maggior parte dei casi esalta l’ego dello scopritore ma non rappresenta certo un grande contributo allo studio del nostro universo.
E, rimanendo nella metafora astronomica, purtroppo oggi ci troviamo con un mare di denominazioni che assomigliano a dei buchi neri: sappiamo che esistono ma non ci è chiaro cosa rappresentano e quanto “pericolosi” possano essere. Sono la fine di una galassia o potrebbero rappresentare anche l’inizio di qualcosa di nuovo?
Non è una domanda poi così banale e, pur rendendoci conto che il bravo Lamberto Frescobaldi non è Obi-Wan Kenobi (uno dei mitici Jedi di Guerre Stellari), è indubbio che dovrà trovare un criterio adeguato per razionalizzare il nostro sistema delle denominazioni.
Se, infatti, si volesse con una sorta di schiocco delle dita eliminare d’emblée tutte quelle denominazioni italiane che allo stato attuale appaiono morte o silenti, probabilmente rimarremmo con un centinaio di brand territoriali tra doc, docg e igt (rispetto alle circa 530 attuali).
È chiaro che un colpo di scure di questa natura non solo sarebbe praticamente impossibile dal punto di visto giuridico, ma sarebbe anche molto pericoloso perché rischierebbe di privarci di denominazioni che hanno potenzialità di crescita decisamente interessanti.
Ed è su quest’ultimo fronte, cioè sul comprendere le reali potenzialità di molte nostre denominazioni di origine, che dovremmo lavorare anche se, purtroppo, abbiamo perso già un mare di tempo.
È evidente, infatti, che se l’unico criterio di valutazione di una denominazione è il suo livello di rivendicazione, di penetrazione sui mercati e di posizionamento medio sui canali distributivi, potremmo forse tornare all’ipotesi di cesura netta già evidenziata precedentemente.
Io penso, invece, che sia necessaria un’analisi che, prendendo spunto dai dati sopra menzionati, sia anche in grado di dare una risposta alle seguenti domande:
- Quali le ragioni del ritardato sviluppo della denominazione (attraverso una survey specifica sui produttori del territorio)?
- La caratterizzazione dei vini è coerente con le dinamiche dei mercati attuali e in prospettiva (analisi della contemporaneità dei vini)?
- Vi sono case history interessanti di brand aziendali che sono stati in grado di sfruttare adeguatamente la denominazione (anche nel passato)?
- Vi è una documentazione adeguata a supporto della vocazionalità della denominazione (es. zonazioni)?
- Vi sono riconoscimenti autorevoli da parte della critica enologica (anche nel passato)?
- Dall’analisi dell’andamento storico della denominazione, quali sono i fattori che possono avere influito nella perdita di notorietà, posizionamento, reputazione?
Su quest’ultima domanda, prendo spunto da quanto recentemente affermato da Angelo Peretti, uno dei più attenti osservatori delle dinamiche di evoluzione o involuzione delle denominazioni italiane. Nei giorni scorsi, Peretti sottolineava come la denominazione Bardolino, una delle più storiche italiane, con etichette prestigiose già presenti a metà dell’800, di fatto si sia “persa” con l’arrivo del turismo di massa sul Lago di Garda (in particolare di origine tedesca) che ha portato ad una pericolosa “semplificazione” del prodotto e anche della sua immagine influendo così profondamente nel suo percepito e posizionamento.
È molto importante, pertanto, analizzare la denominazione non solo nel suo stato presente, ma cercando di indagare sul suo excursus storico.
Alla luce di quanto sottolineato, faccio una proposta a Federdoc, che in qualche misura mi sembra l’organismo di rappresentanza più importante sul fronte delle denominazioni: perché non costituire un tavolo tecnico di analisi dello stato di salute delle denominazioni da mettere a disposizione a quei Consorzi che oggi sono chiamati a definire strategie opportune di sviluppo del proprio brand territoriale?
Ma lo stesso tavolo, formato da esperti tecnici ma anche in marketing e comunicazione, potrà essere a supporto di tutti quegli organismi, Unione Italiana Vini in primis, che oggi si mettono a disposizione nella riorganizzazione delle nostre denominazioni di origine.
Certo, mi rendo conto, che non può essere un tavolo che si muove su base volontaristica: servono degli investimenti per questa tipologia di analisi. Ma ritengo sia una “spesa” assolutamente preziosa se non si vuole arrivare all’ennesima riforma legislativa che non risolve i problemi ma li nasconde sotto il tappeto.