Se mi chiedessero qual è la principale ragione del successo del Brunello di Montalcino sarei tentato di dare una risposta che potrebbe apparire “antica” o quantomeno desueta: la sua tipicità.
Se c’è una caratteristica che da moltissimi anni è uscita dai contenuti comunicativi del vino italiano è proprio quella della tipicità. Nelle stesse degustazioni o masterclass, ormai, quasi nessuno si azzarda a parlare di tipicità.

Tanto per capirci, per tipicità si intende la riconoscibilità di prodotti, in quanto riconducibili a una categoria determinata da uno o più caratteri distintivi costanti.
Degustando l’annata 2018 durante quest’ultima edizione di “Benvenuto Brunello”, ho avuto la netta percezione che il centinaio di etichette degustate avessero tutte dei connotati facilmente riconducibili alla denominazione. Per essere più chiari, nella degustazione dei vini ho sempre avuto la sensazione che a prevalere fosse il vitigno, il territorio (magari nelle sue principali differenziazioni della denominazioni) rispetto allo stile del produttore.
E questo non lo si può considerare assolutamente scontato e, anche per i produttori di Brunello di Montalcino, si tratta di una conquista frutto di tanto coraggio e lungimiranza, a partire dal “no” agli internazionali e all’investimento totale sul Sangiovese.

Ma perché considero la tipicità del Brunello di Montalcino un valore innanzitutto economico?

Perché la straordinaria riconoscibilità del vino conferisce a questa denominazione una credibilità fortissima, un’autorevolezza invidiabile, un’immagine assolutamente chiara.

Il Brunello di Montalcino, quindi, a mio parere, rappresenta uno dei rari esempi nel panorama della vitivinicoltura del nostro Paese dove i produttori si sono e si stanno impegnando per esaltare al massimo le reali potenzialità del loro territorio, evidenziando la più autentica identità di queste denominazioni. In sostanza sono tra i pochi che hanno abbandonato il complesso del “non avere” per valorizzare al meglio “quello che si ha”.

E questo è un risultato straordinario, considerando il mare di difficoltà che hanno molte nostre denominazioni che tutt’oggi non riconoscono appieno i loro valori e le loro caratteristiche e cercano disperatamente di scimmiottare modelli che non gli appartengono.

È da questa forza motrice che conseguono i risultati di mercato del Brunello, che anche nei primi 9 mesi del 2022 si porta a casa una crescita in valore del 21,5% con un prezzo medio che oggi si attesta a ben 27 euro a bottiglia (prezzo franco cantina relativo ad “annata” e “riserva).
“Se ci si limita solo al Brunello di Montalcino d’annata – mi ha sottolineato Fabrizio Bindocci,  presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino – si scende a 23 euro a bottiglia, un posizionamento sempre di assoluto rispetto”.

Ma la ricerca della garanzia di “tipicità” ha portato anche una crescita coerente della denominazione “che dal 1997 – ci ha tenuto a sottolineare Bindocci – è ferma a 2.100 ettari”. Quante altre denominazioni, visto il successo crescente, avrebbero accettato di limitare la loro superficie vitata? La risposta l’abbiamo purtroppo sotto gli occhi tutti giorni con denominazioni che appena vedono sorridere i dati di mercati rincorrono subito i diritti di impianto al fine di accrescere il proprio vigneto. “Senza dimenticare – ha aggiunto Bindocci – che l’assemblea dei soci ha votato nel 2007 l’abbassamento delle rese a 8.000 kg/ha e dieci anni dopo un’ulteriore diminuzione a 7.000 kg/ha”.

Anche questo giustifica la crescita del valore del Brunello di Montalcino che secondo le proiezioni concluderà il 2022 con vendite per un ammontare complessivo di 250 milioni di euro.
Una tipicità, quella del Brunello, che ha portato un paese come Montalcino – che, dal dopoguerra fino ai primi anni Settanta, era tra le aree nazionali con il maggiore tasso di emigrazione – a vedere nella filiera vitivinicola una fonte economica determinante che “oggi dà lavoro a circa 4.000 addetti, al punto che non è certo esagerato dire che Montalcino è un territorio che, di fatto, vive di agricoltura – ha spiegato il presidente del Consorzio.

Ma è sempre quella tipicità riconoscibile che ha portato il Brunello ad essere ricercato in tutti i mercati internazionali, a partire da quelli più importanti. “Anche nel 2022 – ha sottolineato Bindocci – nonostante la coda pandemica, le tendenze inflazionistiche, le crisi energetiche, la guerra russo-ucraina, il Brunello è cresciuto sia negli Usa (con uno straordinario +25% a valore), sia in Canada (+27%) ma è cresciuto in doppia cifra anche in Germania. Come pure sta registrando crescite interessanti in un’area complessa come quella asiatica”.

Ma senza questa forte riconoscibilità del brand Brunello di Montalcino non si sarebbe potuta registrare l’escalation dell’enoturismo che “in questa fase post covid – ha spiegato Bindocci – sta portando nel nostro territorio moltissimi enoturisti a partire dai cosiddetti alto spendenti di Usa, Canada, Australia e Brasile”.  Il risultato, per un’area rurale che conta una struttura ricettiva ogni 35 abitanti e dove non manca certo lo spazio, è da record: circa 120mila presenze con pernottamenti in 4 mesi, addirittura il 20% in più rispetto al pre-Covid del 2019 e un incremento dell’87% delle presenze straniere al confronto con il 2021, quando gli arrivi italiani avevano tenuto in vita l’ospitalità enoturistica.

L’obiettivo comune di rendersi sempre riconoscibili in coerenza con la reale vocazionalità del territorio ha sicuramente consentito ai produttori di Montalcino di costruire una rete virtuosa che oggi consente a questa denominazione di avere una credibilità che, purtroppo, è difficilmente riscontrabile in tanti altri nostri territori produttivi.

Sono tutte rose? Ovviamente no: ad esempio, io penso che sarebbe opportuno che più brand privati intraprendessero un’attività comunicativa più intensa in grado di non lasciare da sole quelle realtà che sono state preziose e indispensabili driver per far conoscere i vini di Montalcino nel mondo.