L’ultima notizia in ordine di tempo riguardante l’annoso tema del Prosecco prodotto in Australia arriva dal Brisbane Times, che riporta la storia di Otto Dal Zotto, un italiano che produce vino in Australia dal 1987 (nella King Valley nello Stato del Victoria) compreso il Prosecco. Non a caso lo slogan della sua azienda (andate a visitare il suo sito www.dalzotto.com.au) è un eloquente “Pionieri del Prosecco in Australia dal 1999”. Dal Zotto difende il suo diritto a produrre Prosecco e a chiamarlo così in quanto “nato a Valdobbiadene…nelle storiche colline del Prosecco”. Non solo ma il Dal Zotto al quotidiano australiano sottolinea anche che non comprende le proteste italiane: “Quando ho iniziato a coltivare il Prosecco non avevo mai pensato di fare qualcosa di sbagliato, o per infastidire qualcuno…c’è spazio per coltivare un buon Prosecco per tutti”.
Una protesta quella di Dal Zotto che in qualche misura è appoggiata dalle stesse autorità australiane che rivendicano il diritto dei migranti giunti in Australia di riprodurre nel loro Paese le loro tradizioni, comprese le produzioni tipiche europee.
Molto chiaro al riguardo Tim Ayres, assistente del ministro del commercio australiano che ha dichiarato: “Che si tratti di Prosecco o Parmigiano-Reggiano o di Feta, o uno qualsiasi di questi altri prodotti tutelati dall’Unione Europea, non è perché gli australiani sono andati a prenderseli in Europa ma perché sono stati gli europei a venire in Australia formando imprese che oggi fanno parte della storia di questo Paese”. Insomma, in sostanza, se uno emigra ha tutto il diritto di poter produrre nel suo nuovo Paese qualsiasi prodotto che faccia parte del suo background culturale.
Provate ad immaginare cosa significherebbe applicare questo principio sempre considerando gli inevitabili grandi flussi migratori dell’umanità, non potremmo tutelare più nessun brand perché chiunque potrebbe rivendicare il proprio “diritto di origine”.
Di fatto se valesse il principio australiano si passerebbe da un’origine “territoriale” a un’origine “personale”. Un principio sicuramente suggestivo ma inaccettabile perché significherebbe rompere il legame fondamentale tra il prodotto e il suo territorio di produzione.
Ma gli australiani sembra non abbiano nessuna voglia di mollare e sempre in questi giorni nel magazine online InReview è stato pubblicato un articolo dal titolo: “Con qualsiasi altro nome: a prescindere dal nome che gli potremo dare, il Prosecco è lo spumante essenziale e divertente per un’estate nel Sud Australia”.
Il giornalista Tony Love sottolinea come il Prosecco sia nato nel nord est dell’Italia ma è diventato un fenomeno mondiale che per molte giovani e in numerose parti del mondo fa anche concorrenza allo Champagne.
Ma in questo “fenomeno” c’è anche un piccolo pezzo di Australia – prosegue Love – basti pensare al Prosecco prodotto nella King Valley nel Victoria, nel Riverland, sulle Adelaide Hills, nei distretti della Limestone Coast, la sua area principale nel Sud Australia”.
Insomma sottolinea il giornalista australiano “I volumi e il valore del Prosecco in Australia stanno crescendo ad un ritmo entusiasmante. I dati di Wine Australia prodotti da IRI MarketEdge, mostrano che il 78% del Prosecco che consumiamo è di nostra produzione”.
Sempre Love poi ironizza sulla tutela italiana del Prosecco: “Gli italiani hanno scioccato il mondo del vino nel 2009 quando di punto in bianco hanno emanato un decreto che affermava che il Prosecco non era più un vitigno, giurando che non era mai stata una varietà sebbene fosse stata inserita nel loro elenco varietale ufficiale da decenni. Ora sostengono che la varietà sia la Glera ma, bisogna ammetterlo, suona un po’ come una delle sorelle di Cenerentola”.
In conclusione però Love ammette che non sarà facile per i produttori australiani difendere il nome Prosecco e lo stesso accordo fatto dalla Nuova Zelanda con l’Unione Europea (che concede solo 5 anni ai produttori neozelandesi di “trovarsi” un altro nome per il Prosecco) fa presagire che anche l’Australia dovrà prima o dopo adattarsi.
Per quanto si possa comprendere il rammarico dei produttori di Prosecco australiani di perdere il diritto ad utilizzare un nome così popolare risulta veramente incomprensibile e grave la difesa delle loro istituzioni. Una difesa che però testimonia quanto ancora molto ci sia da fare nelle relazioni internazionali e nella definizione di accordi seri a tutela dei nostri brand territoriali.
Se, infatti, parte delle costanti perdite che subiamo sul fronte del cosiddetto italian sounding sono legittimate da leggi ufficiali, diventa sempre più difficile sperare in una risoluzione seria di un fenomeno così ancora preoccupante.