Mi considero una persona paziente e tollerante. Non ho mai amato nemmeno le difese lobbistiche perché ritengo che vi siano interessi talvolta superiori a qualsiasi categoria economica, a partire, ovviamente, dalla salute pubblica.
Ma l’aggressione che stanno subendo le bevande alcoliche, compreso il vino, in quest’ultimo anno è diventata intollerabile e ingiustificabile.
Ultimo esempio in ordine di tempo la denuncia che si sono beccati Lady Gaga e Dom Pérignon da parte dell’associazione Addictions France, che accusa la popolare artista americana e lo storico brand di Champagne di avere avviato una collaborazione pericolosa che occulta una pubblicità al fine di aggirare la legge. E la legge a cui si riferisce l’associazione francese è la recentemente tanto citata “Loi Evin”, che prende il nome dal senatore Claude Evin.
Già in questo richiamo di legge ci sono aspetti che non tornano perché si tratta di una legge del 1991, nata per combattere tabagismo e alcolismo, e ci si chiede come mai solo recentemente sia diventa una vera e propria mannaia nei confronti di qualsiasi forma di comunicazione del vino, a partire da quella sui social media, fatta sia da privati che da giornalisti o wine blogger.
Tutto questo accanimento si sta trasformando in un pericoloso proibizionismo che rimanda agli oscuri anni ’20 americani, in quello che venne definito “The noble experiment”, l’esperimento nobile, ma che in realtà diede il via ad un’incredibile campagna di corruzione e, peggio ancora, fece aumentare gli abusi di bevande alcoliche.
Tutti i fenomeni di proibizionismo nella storia sono spinti e supportati da gruppi religiosi o politici che mettono al centro delle loro azioni e delle loro scelte il moralismo e il fondamentalismo. E, purtroppo, la storia ci insegna che questo tipo di visione non ha mai generato buoni risultati; anzi, ha addirittura peggiorato la situazione.
Per questa ragione diventa difficile, oggi, alla luce delle conoscenze sociologiche e psicologiche di cui è al corrente la nostra società, comprendere un tale accanimento.
Nessuno, a partire dal sottoscritto, vuole negare il problema degli abusi, ed ho sempre dichiarato che non considero corretto parlare di vino come una bevanda salutistica. Ma negare che si tratti di un prodotto profondamente legato alla cultura di tanti popoli, compreso il nostro, è pura e pericolosa follia.
Come pure (e qui non voglio assolutamente apparire lo “psicologo da bancarella”) è ormai acclarato che la proibizione si trasforma quasi sempre in stimolo, in incentivo al consumo, soprattutto per le giovani generazioni.
A questo riguardo, mi viene in mente la storia di un mio amico che, per sostenere un altro amico nella lotta all’alcolismo da oltre dieci anni, ha deciso di non bere più nessuna bevanda alcolica. Un gesto assolutamente nobile ma anche, come ci ripete sempre, una scelta che ha un senso proprio nel suo essere volontaria e non “obbligata”.
Pensare di frenare qualsiasi tipo di abuso con i divieti non solo è inutile ma è chiaramente pericoloso.
Il vino, inoltre, lo ripeterò alla nausea, è senza ombra di dubbio la bevanda alcolica meno indicata per chi è alla ricerca dello sballo.
Queste leggi, quindi, che addirittura limitano la possibilità di comunicare la cultura del vino in maniera sobria, corretta, senza eccessi, rischiano seriamente di minare l’impianto comunicativo ed educativo sul quale si è costruita con fatica e impegno gran parte della narrazione del vino di questi ultimi sessant’anni, dai grandi Mario Soldati, Gianni Brera, Luigi Veronelli ai giorni nostri.
Allora ripeto la domanda: perché tutto questo accanimento nei confronti del vino? E perché adesso?
Costruire le cosiddette “Società della sobrietà” sembra un messaggio di preoccupante orwelliana memoria.