Nei giorni scorsi un export manager che è anche un caro amico mi ha detto: “Quest’anno di pandemia è stato per me un periodo straordinario. Non ho mai venduto così tanto vino in vita mia”. Vedendo la mia faccia un po’ sorpresa ha aggiunto: “E lo sai perché? Perché a me piace vendere, mentre sempre più miei colleghi vogliono fare i consulenti. Io invece Fabio amo il mio mestiere di venditore e se uno mi chiede che lavoro faccio con orgoglio rispondo che sono un rappresentante di vino”. Rappresentante? “Si rappresentante come si diceva parecchi anni fa quando essere venditori era un onore e nessuno si nascondeva dietro i termini, le definizioni e si andava subito al sodo”.

Devo ammettere che questo breve dialogo con Nicola è stato illuminante e ancora una volta mi ha confermato come la “vendita” deve essere la chiave nella definizione di qualsiasi strategia aziendale, sia sul fronte produttivo che su quello del marketing e della comunicazione.

E sempre Nicola mi ha fatto ancora una volta comprendere questo aspetto sottolineando come “la vendita ti obbliga a mettere in gioco tutte le tue competenze e le tue soft skills a partire dalla capacità di accettare tanti no”.

Quanto ha ragione Nicola. Ed è proprio il motivo che ci ha portato in questi anni a modulare tutta la nostra attività formativa avendo come fattore trasversale la vendita. Non possiamo parlare di comunicazione, infatti, senza orientarla alla vendita. Non possiamo affrontare il tema dell’identità aziendale senza evidenziarne gli elementi che portano alla vendita. Non si può ovviamente parlare di organizzazione aziendale senza renderla coerente alla vendita.

Eppure è vero quello che dice Nicola, sembra che la vendita sia diventata sempre di più la classica patata bollente che nessuno vuole prendere in mano.

Quante volte ci sentiamo dire sia nei colloqui di lavoro che nella nostra attività formativa: “sono disponibile a tutto ma non fatemi vendere”.

Una frase di questo genere dovrebbe, a mio parere, essere una discriminante per eliminare qualsiasi candidato anche quelli destinati ad attività tecniche. Un enologo, ad esempio, che non abbia orientamento alla vendita perde gran parte del suo valore.

Mi sono chiesto allora cosa ha portato troppe risorse umane del settore vitivinicolo ad avere così paura nell’essere coinvolti nella vendita?

“È un lavoro sicuramente difficile”, ha detto giustamente ancora una volta Nicola.

Ma questa, a mio parere, non è l’unica ragione. È stata data un’accezione negativa dell’attività del venditore. È un paradosso ma è così.

E abbiamo contribuito un po’ tutti, a partire da noi cosiddetti giornalisti del vino che scriviamo fiumi di parole sulle caratteristiche dei vini ma dedichiamo poche righe all’economia delle imprese, ai numeri che esse sviluppano. Quante volte, ad esempio abbiamo letto articoli che denigravano aziende considerate “troppo commerciali”, non rendendosi conto che fare del “moralismo economico” significa andare ad indebolire tutto il comparto, comprese le piccole realtà artigianali.

Non solo, noi di Wine Meridian lo abbiamo sottolineato più volte, si sono esaltati negli anni centinaia di enologi, ma quanti direttori commerciali, agenti Italia, export manager sono riusciti a diventare popolari e apprezzati dai media di settore? Pochissimi.

Potremmo in questa direzione tirare in ballo la scusa del retaggio culturale, una volta si diceva catto-comunista, che ci ha portato a guardare al denaro come un qualcosa di sporco, di poco lecito. E di conseguenza chi si occupa della vendita in qualche misura viene contaminato da questo pregiudizio.

Ma hanno contribuito a questo stato delle cose anche gli stessi imprenditori del vino che a noi chiedono “venditori” ma poi li “nascondono” nella loro comunicazione.

Dobbiamo vincere a tutti costi questo tabù perché andando avanti di questo passo non avremo più venditori e saremo circondati solo da consulenti.

E veniamo allora anche a dare una personale spiegazione al tema della consulenza.

Su questo fronte dobbiamo dividere la consulenza “commerciale” in due tipologie: coloro che vogliono fare i consulenti perché non vogliono rispondere dei loro risultati (purtroppo scarsi); coloro che con il termine di consulente vogliono arricchire il ruolo del venditore.

Se la prima tipologia è assolutamente inaccettabile perché di fatto si cerca un ruolo dove nascondersi, la seconda è invece certamente legittima e per tanti aspetti positiva.

È indubbio, infatti, che vendere vino trenta e oltre anni fa era ben diverso rispetto a quest’ultimo decennio. Le competenze professionali dei “venditori di vino” attuali sono molto più vaste rispetto al passato. Sono talmente cambiate le dinamiche dei mercati, la concorrenza si è elevata a livelli parossistici ed è evidente che il venditore debba essere sempre di più anche un “consulente dei processi di vendita”. Ma il termine consulenza, però, non deve mai sfociare nella pericolosa deriva: io ti faccio le strategie e poi ci sarà qualcun’altro a vendere.

Non perché non sia legittimo il ruolo del consulente di marketing, di comunicazione ma questo è un altro mestiere. Offrirsi, presentarsi come “venditori” e poi pretendere di essere accettati come consulenti è, a mio parere, assolutamente sbagliato e questo sta generando non poca confusione all’interno del mercato del lavoro.

So bene che questa tematica è particolarmente sensibile e può suscitare diversi punti di vista ma quello che rimane innegabile è che la vendita deve essere messa al centro dell’attività dell’impresa.

Stiamo osservando anche in questi difficili mesi troppe imprese piene di strateghi e strategie ma con nessun soldato al fronte.

Rimettere al centro delle imprese la vendita significa non solo dare dignità al ruolo del venditore ma anche, e soprattutto, sostenibilità a tutta la filiera del vino, compresi a quelli che vorranno fare “solo” i consulenti.