Tra le tante informazioni che ho acquisito durante il nostro USA Wine Tour, ve ne è una alquanto preoccupante: la stanchezza di molti importatori di vino americani che appaiono decisamente disorientati rispetto alle attuali dinamiche del loro mercato (in flessione dopo decenni di crescita) ma, al tempo stesso, poco inclini a modificare le loro strategie o provare ad adattarle a questa nuova complessa fase. Ad essere onesto, sembrano più “scoraggiati” gli importatori di più lunga data che in quest’ultimo trentennio, in particolare, hanno guadagnato molto attraverso l’importazione e la distribuzione del vino nel loro grande Paese.

Questa stanchezza, difficoltà ad accettare il cambiamento, a dire il vero si percepiva anche prima dell’arrivo della pandemia da Covid-19 e dei primi segnali di rallentamento dello sviluppo dei consumi di vino negli USA.

Non sono poche le aziende italiane, anche brand di prestigio, che già da qualche anno si dichiaravano non proprio entusiaste delle performance realizzate dai loro importatori. Molti mi avevano dichiarato che, se non fosse stato per i contratti “capestro” che li vincolavano ad alcuni importatori, avrebbero cambiato partner commerciale negli USA ben volentieri.

Premesso che non si può certo far cadere la croce addosso ai soli importatori americani delle attuali difficoltà sul mercato statunitense, è indubbio che non si può immaginare di rilanciare un mercato strategico come quello americano, con ancora enormi potenzialità di sviluppo (in fin dei conti la quota di mercato del vino all’interno delle bevande alcoliche negli USA è di poco sopra il 15%) con un modello di importazione legato ancora gli anni ’70 o giù di lì.

Se nel mio ultimo editoriale avevo evidenziato che non si poteva pretendere di elevare l’immagine del vino italiano, in particolare agli occhi delle nuove generazioni, con una promozione da post dopoguerra (con tante attività fatte ancora addirittura dentro qualche ufficio di ambasciata o consolato), questo è altrettanto vero se parliamo di format di importazione e, soprattutto, di rapporti con il mondo della distribuzione.

Un mondo, quello della distribuzione, che si è molto modificato anche negli USA, con un’Horeca che ha subito e sta subendo profonde evoluzioni ma anche con la nascita di nuove e differenziate catene distributive, alcune delle quali molto interessanti anche per un prodotto come il vino.

Ma se si sta assistendo ad interessanti accordi tra mondo della distribuzione e aziende americane, non possiamo dire la stessa cosa tra importatori e vini italiani, che spesso sono rappresentati dai “soliti” brand e ancor più spesso nei posizionamenti medio-bassi. Gli stessi media del vino americani, a parte poche eccezioni, sembrano riprodurre questa fotografia datata del vino italiano.

Anche parlando di vino italiano con molti addetti ai lavori del mercato statunitense, ho sempre avuto la sensazione di un prodotto “vintage”, di quelli che hanno segnato la storia, dalla lunga tradizione, ma che oggi non sembrano essere più in linea con le tendenze attuali del mercato americano.

E sappiamo bene quanto questo sia lontanissimo dalla realtà perché se c’è una cosa che ha il vino italiano, forse più di ogni altro Paese produttore al mondo, è il suo essere contemporaneo, con un mare di tipologie di vino, di proposte, di territori che possono adeguarsi a qualsiasi tendenza, sia quelle più tradizionali che quelle più innovative.

Se però veniamo ancora percepiti come quelli che vanno bene nei ristoranti della “Little Italy”, allora significa che dobbiamo provare in tutti i modi ad ampliare il nostro bacino di utenza, senza nulla togliere al merito che hanno e avranno ancora i locali storici della ristorazione italiana negli USA.

Ma allora che fare?

Le aziende che possono farlo, non vincolate da contratti blindati con alcuni importatori, dovranno provare a selezionare nuovi partner commerciali, talvolta anche realtà più piccole ma molto più dinamiche e disponibili a rompere alcuni schemi, per esempio quello di accettare senza timori la collaborazione in termini di marketing e comunicazione delle imprese che importano.

A quest’ultimo riguardo, se penso a quante volte ho sentito produttori ed export manager lamentarsi dei loro importatori negli USA che non vogliono “intrusioni” nello strategie marketing e commerciali, di quanti si rifiutano di dare i numeri di quanti e quali ristoranti stanno seguendo, ad esempio.

Ma un’altra strategia che ritengo sempre più importante, forse oggi più che nel passato, è quella della rete di impresa. Una rete di impresa tra aziende complementari tra di loro che decidono di sviluppare il mercato USA insieme, investendo in risorse umane in comune, a partire da brand manager capaci di aprire nuove strade e mettersi a disposizione degli importatori.

Affronterò questo tema nel dettaglio in un prossimo articolo, ma per il momento vi lascio con una domanda: “Cosa dovrà succedere nei mercati del vino prima che le imprese si rendano conto che da sole faranno sempre più fatica ad essere competitive e vincenti?”.