La settimana scorsa, complice anche una grandinata impressionante che ha letteralmente distrutto la mia auto, ho deciso di intervenire su un tema che definire molto discusso è un eufemismo, e cioè quello delle cause delle mutazioni climatiche.

Mi sono quindi letto decine e decine di articoli e anche i più importanti report relativi a quelle che potrebbero essere le motivazioni degli attuali cambiamenti climatici con i loro drammatici risvolti.

Quello che è emerso da questa lettura sono sostanzialmente due aspetti:

  • uno totalmente irrazionale che cavalca la sempre più utilizzata narrazione catastrofistica che punta a dare una visione apocalittica del futuro dell’umanità;
  • una visione più razionale basata sulle attuali evidenze scientifiche che però, purtroppo, si basano solo su un recente passato della storia, cioè da quando si è in grado di avere dati certi concretamente monitorabili e dimostrabili. Senza dimenticare che è praticamente impossibile dimostrare che ogni evento climatico estremo, in un pianeta di oltre 12 mila km di diametro, sia attribuibile alle emissioni di gas serra.

Ed è proprio quando la scienza non può dare certezze che si genera l’humus ideale per lo sviluppo di una comunicazione apocalittica. Un’esperienza che abbiamo ben sperimentato anche durante la recentissima pandemia da Covid-19.

Se però, al momento, la scienza non è in grado di dare risposte certe, quello che è sicuro e facilmente dimostrabile è che quella che oggi viene definita “eco-ansia” sta generando e può generare disastri inenarrabili. E quando parlo di persone afflitte da eco-ansia (ovvero quel panico irrazionale generato dalla paura che la terra abbia i minuti contati) non mi riferisco a quei giovani che legittimamente contestano a noi adulti le pietose condizioni con cui gli stiamo consegnando l’eredità del nostro pianeta.

Ammettere che abbiamo gestito in maniera indecorosa la nostra terra da secoli, e forse con un peggioramento proprio in quest’ultimo, è un punto di partenza fondamentale per individuare nuove vie essenziali di miglioramento.

Ma l’eco-ansia a cui mi riferisco è quella condizione che porta ad annebbiare le menti, ad impedire analisi oggettive e, soprattutto, a non consentire soluzioni vere e concrete. E se c’è una cosa che fa comodo proprio ai responsabili dello scempio ambientale, a vari livelli, è proprio l’eco-ansia.

Basta leggere i giornali o seguire qualche trasmissione televisiva o dibattito sui social per comprendere che questo storytelling apocalittico sta innalzando una cortina fumogena altissima che ha un nome ben preciso: la divisione tra coloro che credono alla causa “umana” delle mutazioni climatiche (in estrema sintesi riconducibili all’“effetto serra” generato dall’utilizzo di combustibili fossili) e coloro che invece le considerano mutazioni cicliche “naturali” e quindi inevitabili, i cosiddetti negazionisti.

Questa divisione manichea dell’umanità, a mio parere, è quanto di peggio possa succedere in una fase particolarmente complessa (per varie ragioni, non solo climatiche) per il nostro pianeta. L’eco-ansia, pertanto, porta al pericoloso rischio della continua generalizzazione di qualsiasi fenomeno.

Come ha giustamente scritto Lorenzo Borga su “Il Foglio” del 31 luglio scorso: “…è importante non cadere nella tentazione di generalizzare, attribuendo ogni fenomeno atmosferico al cambiamento climatico. Perché al di là dei singoli eventi, l’attenzione va concentrata su come ridurre le emissioni di CO2 e adattare le nostre infrastrutture e stili di vita alle conseguenze del riscaldamento globale”.

Ha ragione da vendere Borga e per questo se si continua a cavalcare l’eco-ansia non solo vedremo sempre più giovani e ministri piangere insieme ma soprattutto risponderemo al riscaldamento globale con l’efficace strumento della depressione.