Sia durante che appena rientrati dal nostro USA Wine Tour, sono stati molti gli imprenditori e i manager del vino che ci hanno chiesto (parecchi con una certa apprensione) cosa stia succedendo nei mercati del vino, a partire dagli USA, quello che possiamo considerare il più strategico. Ma a questa domanda se ne è aggiunta un’altra: cosa possiamo fare come imprese per rispondere a cambiamenti così importanti, quasi radicali?
Sono ovviamente due domande legate tra di loro che evidenziano quello che ormai è davanti agli occhi di tutti: quelle rivoluzioni che più volte negli anni come Wine Meridian abbiamo cercato di raccontare ai nostri lettori sono ormai un fatto ineluttabile e visibile da ogni diversa angolatura.
Rivoluzioni che potremmo così sintetizzare:
- un calo dei consumi di vino un po’ in tutti i principali mercati mondiali (un forte rallentamento su quelli tradizionali e un mancato sviluppo in quelli cosiddetti emergenti);
- un preoccupante disinteresse dei giovani (gen Z) nei confronti del vino;
- una crescita sempre più evidente dei vini low e no alcol;
- una “stanchezza”, “staticità” degli importatori e distributori (soprattutto le realtà “storiche”) in molti mercati internazionali;
- una comunicazione del vino sempre meno attrattiva;
- una forte crescita internazionale del fenomeno dell’enoturismo.
Rivoluzioni che hanno un impatto molto forte in particolare nelle piccole–medie imprese che faticano a stare al passo con questi cambiamenti e, soprattutto, sono in grande difficoltà nel presidio dei mercati.
Se a questo aggiungiamo le problematiche legate alle mutazioni climatiche e anche le attuali emergenze fitosanitarie (peronospora in primis che sta devastando grandi aree viticole come quella abruzzese e pugliese, tanto per citare le regioni più colpite) è chiaro che lo scenario è tra i più complessi che il mondo del vino ha dovuto affrontare negli ultimi quarant’anni.
Alla luce di tutto ciò, mi dispiace ancora una volta sottolineare come nemmeno una fase così complessa sia riuscita a spingere il nostro sistema vitivinicolo a far sentire la propria voce, ad esprimere con chiarezza le proprie preoccupazioni. Le stesse emergenze fitosanitarie che stanno mettendo in ginocchio intere regioni produttive stanno avvenendo in un silenzio assordante. E veramente, oggi, faccio fatica a comprendere questo atteggiamento omertoso.
Mi rifiuto di pensare che si preferisca buttare tutto sotto il tappeto per poi avere la libertà di muoversi nell’ombra, di trovare soluzioni poco trasparenti.
Possibile che non ci si renda conto che il “Re è realmente nudo?”.
Tornando quindi alle due domande iniziali ritengo che le risposte sostanziali siano le seguenti: dobbiamo prendere atto che l’onda di crescita dei consumi di vino che ci ha accompagnati dal post scandalo metanolo (1986) soprattutto sui “nuovi” mercati (a partire dagli USA) si è, se non del tutto esaurita, sicuramente decisamente rallentata.
Risulta oggi fondamentale comprendere bene le ragioni di questo “rallentamento”; se è legato a condizioni economiche congiunturali (che toccano profondamente il portafoglio dei consumatori, soprattutto della classe media) o se invece dipende da una perdita di appeal del vino all’interno dell’universo delle bevande alcoliche. Probabilmente le ragioni si trovano sia nell’una che nell’altra causa ma sarebbe importante avere maggiori informazioni al riguardo.
Quello che è certo è che anche gli importatori e distributori che abbiamo incontrato negli USA ci hanno sottolineato la necessità di costruire un rapporto più forte con le aziende vitivinicole italiane che vogliono esportare nel loro Paese e, di conseguenza, è necessario un maggiore supporto nella costruzione di brand più forti, autorevoli, riconoscibili. Nulla di nuovo, per carità, ma se fino a un po’ di tempo fa questa appariva un’opzione, oggi è una vera e propria conditio sine qua non.
E quante sono oggi le aziende del vino italiane che hanno “ossigeno” per presidiare e supportare il loro brand sui mercati internazionali? E quante sono quelle in grado di aprirsi nuovi mercati?
Sicuramente molte meno di quelle che lo potevano fare anche nel recente passato, inutile girarci tanto intorno. E questo implica che è in atto, ma lo sarà probabilmente ancor di più a breve, un’inevitabile selezione di aziende italiane in grado di essere presenti in maniera efficace e redditizia sui mercati internazionali. Quasi ogni giorno sentiamo qualche azienda che ci comunica la sua scelta di rinunciare o ridimensionare fortemente il proprio investimento sul fronte export.
Lo stesso OCM ormai da tempo non appare più una misura adeguata, soprattutto per le piccole e medie imprese.
Cosa fare allora?
La risposta non è condensabile facilmente in un breve editoriale ma quello che mi sento di evidenziare, pur in poco spazio, è che il cosiddetto Dtc (direct to consumer) diventa una scelta inevitabile per molte imprese italiane. Non significa “solo” attraverso l’enoturismo (che rimane una via assolutamente strategica per la sostenibilità economica di molte imprese del nostro Paese), ma anche in tutte le diverse forme di “disintermediazione” della vendita, dall’online alla costruzione di relazioni dirette con i clienti privati.
Per le aziende che invece hanno oggi strumenti (in particolare sul fronte delle risorse umane) per presidiare bene i mercati internazionali si prospetta una situazione favorevole, perché la “pulizia” da realtà poco preparate che generavano (e generano) danni sul piano del posizionamento di molte nostre denominazioni sta determinando nuove interessanti opportunità.
Per fortuna, infatti, l’appeal del vino italiano è ancora molto forte ovunque e stiamo ancora sfruttando molto parzialmente questa nostra reputazione.
Qui si apre l’annoso capitolo di come promuovere meglio il vino italiano nel mondo, e noi qualche idea l’avremmo; a giorni ve la racconteremo.