Premesso che non amo le classifiche di nessun genere perché raramente sono in grado di fare emergere i reali valori di una persona, di un territorio, di un’azienda. Forse le uniche realmente attendibili, o quasi, sono le classifiche sportive.

Per questa ragione prendo anche con le pinze quella redatta ogni anno da Brand Finance, una delle società più autorevoli per l’analisi dei maggiori brand a livello internazionale. Nella loro classifica, inserita nell’Alcoholic Drink 2023 relativa ai brand del vino, non si trova nessuna azienda italiana nei primi 15 posti.

La classifica 2023 vede al primo posto Moët & Chandon con un valore stimato in 1,3 miliardi di dollari davanti al colosso del vino cinese Changyu, con un valore di 1,2 miliardi di dollari e al terzo posto, con un valore di 1,01 miliardi di dollari, l’americana Chandon. Al quarto posto troviamo Veuve Clicquot (942 milioni di dollari), al quinto Dom Pérignon, (750 milioni di dollari ), al sesto la statunitense Barefoot (742 milioni di dollari), al settimo l’australiana Penfolds (659 milioni di dollari), all’ottavo posto un altro brand australiano, Beringer (461 milioni di dollari), al nono la cilena Concha y Toro (368 milioni di dollari) e alla decima posizione l’australiana Jacob’s Creek (313 milioni di dollari). Per chiudere la classifica, dall’undicesima alla quindicesima posizione, troviamo nell’ordine l’americana Carlo Rossi, i brand australiani Yellow Tail e Lindeman’s, la francese Mumm e la statunitense Twin Valley.

Come ho premesso, credo poco alle classifiche; tuttavia, penso che servano più agli assenti che ai presenti. Per questa ragione, ritengo sia utile chiedersi come mai non vi sia nessun brand del vino italiano in questa classifica.

Le motivazioni sono ovviamente più d’una e quella che verrebbe più facile da dire è legata alla dimensione aziendale. Ma, come spesso accade, non è detto che la prima risposta sia quella più giusta. È indubbio, infatti, che le dimensioni (sia quelle produttive che di fatturato) abbiano un’incidenza notevole soprattutto in termini di visibilità e diffusione di un brand sul mercato. Sarebbe però limitativo fermarsi solo a questo aspetto.

La stessa Brand Finance prende in esame la percezione dei brand in relazione ad un tema di fondamentale importanza: quello della sostenibilità. E, anche in questo caso, l’Italia del vino risulta sostanzialmente assente.
Non va molto meglio nel mondo birra, dove troviamo il primo brand italiano solo al 49° posto (ed è il nuovo entrato Peroni).

Un po’ meglio sul fronte degli spirits, dove troviamo due brand italiani (Aperol al 29° posto e Martini al 44°).

Io penso – e mi assumo ovviamente la responsabilità totale di un’affermazione che può apparire molto forte e, per qualcuno, eccessiva – che le nostre imprese del vino, anche le più grandi, investano molto poco nel proprio brand, nell’immagine della propria azienda.
E dirò di più: non penso che lo facciano solo per una questione economica, perché probabilmente ciò è legato a motivazioni culturali ad un background ancora fortemente “agricolo” del nostro settore vitivinicolo.

E se le radici rurali del nostro sistema vino si rivelano spesso straordinarie sul fronte della qualificazione dei prodotti, nell’attaccamento ai territori produttivi, si trasformano in pericolose zavorre quando si entra sul fronte del cosiddetto “branding”.

Da tanti imprenditori e manager del vino, anche di grandi imprese, mi sono sentito dire in oltre trent’anni di lavoro: “È la qualità dei miei vini che deve fare emergere il mio brand“, “Sono i miei ettari vitati che devono far percepire i valori del mio marchio”.

Un atteggiamento che può anche apparire “nobile” ma che, alla fine, rallenta lo sviluppo della notorietà di molti nostri brand, alcuni dei quali, a mio parere, avrebbero tutte le carte in regola per non chiudersi sempre a riccio a difesa dei propri valori “tradizionali”.

In fin dei conti, le etichette fluo del mitico Champagne “Dom Pérignon” che illuminano i party in tantissime discoteche nel mondo avranno anche fatto rivoltare nella tomba il monaco francese, ma hanno innalzato ulteriormente la notorietà del prestigioso brand.

Se andate ad analizzare le azioni comunicative su più fronti (da quelli più “estetici” a quelli più “seri”) dei primi 15 brand del vino a livello mondiale, vi accorgerete che l’Italia è il Paese del vino che più teme di allontanarsi dai vecchi schemi della comunicazione della propria immagine.