Si è riaperta in questi mesi la discussione attorno al tema delle UGA, le Unità Geografiche Aggiuntive, che alcuni considerano solo una fascinazione giornalistica ed altri, invece, una reale opportunità per evidenziare meglio le peculiarità del nostro incredibile patrimonio vitivinicolo. Io, lo dichiaro subito, appartengo a quest’ultima categoria e non da poco tempo.

Sono talmente convinto dell’importanza di menzioni territoriali che siano in grado di comunicare meglio la nostra straordinaria eterogeneità produttiva che ritengo che questa dovrebbe essere la tematica più importante per costruire finalmente uno storytelling efficace sul vino italiano.

Non è da considerare poi un’idea così originale, la mia, considerando che i francesi (con i loro cru) hanno costruito gran parte del loro mito.

Ma, se ci pensiamo, non possiamo non affrontare finalmente con più serietà e concretezza il tema delle UGA (sì, la definizione e l’acronimo fanno abbastanza schifo, ma questo deriva dalla nostra cultura burocratico-bizantina che ci affligge da sempre) perché non siamo ancora riusciti a dare una risposta alla seguente domanda: “Come riuscire a raccontare al meglio le tantissime diversità, peculiarità del vino italiano?”.

E’ incredibile che dopo tanti anni di denominazione, di regione vitivinicola, di Italia del vino, continuiamo a dire che è molto difficile spiegare le nostre diversità e che quindi chi degusta i vini italiani deve essere preparato ad uno sforzo immane perché noi non siamo in grado di comunicare bene la nostra eterogenea identità.
E alla fine ci limitiamo a dire: “Siamo diversi, qui il suolo è così, il clima è particolare”, ma non ci rendiamo conto che dare un nome alle diversità rappresenta, a mio parere, la sintesi comunicativa più efficace.

Ripetiamo da decenni, e questo ci viene confermato tutt’oggi da moltissime indagini, che l’origine rappresenta un fattore chiave di riconoscibilità dei nostri vini.
Ma, affinché l’ORIGINE (denominazione) possa essere un brand territoriale autorevole e comunicativamente efficace, è necessario dotarlo di strumenti di riconoscibilità più forti, ed è in questa direzione che si inserisce il ruolo delle UGA.

E’ chiaro, pertanto, che per rendere efficace la strada delle UGA è fondamentale affiancare una altrettanto forte campagna comunicativa. Pensare che “fatte le UGA” ne derivi una conseguente facile comunicazione è una pericolosa illusione.

Ed è questa la ragione che, pur in presenza di UGA in oltre 20 disciplinari (come ci ha ben ricordato il Corriere Vinicolo di questa settimana), sono pochissime quelle realmente utilizzate.
Ma se tutto l’impegno si esaurisce nella definizione di queste specifiche aree territoriali, è inevitabile il loro insuccesso. Anzi, rischiano di diventare un mero esercizio stilistico che genera più frustrazione che vantaggi, come la gran parte degli studi di zonazione realizzati nel nostro Paese negli ultimi trent’anni.

Ma è proprio su questo fronte che, a mio parere, si annida ancora una volta il “problema Italia”, ovvero l’atavica paura di evidenziare le diversità del vino italiano (a partire da quelle all’interno delle nostre denominazioni).

E se le mie vigne non sono all’interno di qualche UGA?”: questa la domanda che, più o meno inconsciamente, si fanno molti produttori. Ma è anche l’obiezione che spinge tutt’oggi molti consorzi a stare alla larga da questo tipo di differenziazione che porta a comunicare drammaticamente che “siamo tutti uguali di fronte alla denominazione”.

Sappiamo bene come non sia così nemmeno di fronte alla legge; figuriamoci se lo possiamo essere di fronte a terroir che si diversificano anche a distanza di pochi metri l’uno dall’altro.
Per questo motivo, spero che il prof. Attilio Scienza (da poco eletto nuovo presidente del Comitato Nazionale Vini), data la sua grande sensibilità anche sul fronte del marketing e della comunicazione, comprenda l’importanza di agevolare lo sviluppo delle UGA e al tempo stesso della loro comunicazione.

Certo non è responsabilità del Comitato Nazionale Vini avviare strategie comunicative delle UGA, ma oggi ritengo sia necessario che tutti si sentano coinvolti nel promuovere finalmente una comunicazione più efficace del vino italiano.

Non entro nel merito di quali dovranno essere i criteri di individuazione delle UGA, anche se è evidente che dovrà essere un corretto mix tra “scienza” e “marketing”. A questo proposito, mi ha fatto piacere che il presidente di Federdoc, Riccardo Ricci Curbastro, nel numero del Corriere Vinicolo sopra menzionato abbia così sottolineato: “In qualche caso, l’emergere di una particolare microarea potrebbe nascere da una questione di vero e proprio merito sul mercato, senza che poi procedendo a un’opera di zonazione emergano a livello scientifico elementi tali che ne confermino l’eccezionalità”.

Ecco, mi sembra un’ottima risposta a coloro che pensano che debba essere “solo” la scienza l’unico criterio di selezione delle UGA. Se i francesi avessero fatto così non avrebbero reso noti al mondo alcuni dei loro cru più popolari e prestigiosi.