Mi ero ripromesso che non sarei entrato sul tema del vino dealcolato che così tante polemiche ha suscitato in queste ultime settimane. Fin da subito mi è sembrata una notizia lanciata con tanta superficialità che ancora una volta ha evidenziato le perduranti lacune sul fronte della comunicazione “istituzionale” non solo del vino ma dell’agroalimentare nel suo complesso. Mi sembrava che scriverne avrebbe alimentato ulteriormente una notizia basata su presupposti sbagliati.
Poi, però, in questi giorni è arrivato in redazione un interessante comunicato stampa di Jacopo Vagaggini, uno dei più giovani (classe ’91) promettenti enologi italiani (una sorta di dinastia di agronomi ed enologi la sua, il bisnonno nei primi del ‘900 già teneva le cattedre ambulanti di viticoltura e papà Paolo da tempo è tra i più accreditati winemakers a livello internazionale) che già dal titolo mi aveva fortemente incuriosito: “Vino dealcolato, perché fa così paura?”. Se a questo aggiungo il fatto che Jacopo è nato a Siena come me e di avere come unico “difetto” di essere nato nella Nobile Contrada del Nicchio mentre io in quella dell’Istrice, non potevo non prendere bene in considerazione il suo pensiero.
Il pensiero di Jacopo Vagaggini è racchiuso in questo concetto: “Oggi esiste un mondo a colori, non più bianco o nero. La diversità è parte integrante del nostro vivere quotidiano e deve essere valorizzata e incentivata. Il vino dealcolato è un prodotto diverso, lontano dalla sua origine e dai suoi tratti distintivi, che assolve ad un ruolo diverso: non deve essere vissuto come una minaccia, ma come un mezzo che può smuovere equilibri e creare nuove possibilità di mercato”.
Condivido in pieno il pensiero espresso da Jacopo e penso veramente che anche il “vino dealcolato” rappresenta un ulteriore stimolo per fare comprendere a tutta la filiera vitivinicola che oggi i consumatori sono sempre più alla ricerca di alternative anche sul fronte delle bevande alcoliche. Per il mondo del vino, pertanto, rifiutare la sfida dell’innovazione, in tutte le sue forme, di prodotto, di packaging, di comunicazione potrebbe oggi rappresentare un rischio enorme.
Mi rendo conto che il timore sia quello di far perdere al vino il suo alone di fascinazione, in gran parte legato ai cosiddetti fattori immateriali e, in particolare, a quella che tutti definiscono tradizione. Ma la tradizione può trasformarsi in una zavorra pericolosissima se non si è in grado attualizzarla costantemente. Ma non voglio liquidare questa problematica appellandomi esclusivamente all’obbligo dell’innovazione, alla necessità dell’essere al passo dei tempi.
Sfrutto ancora il pensiero di Jacopo Vagaggini: “Non c’è dubbio che un vino dealcolato sia un prodotto molto artefatto, lontano dalla sua origine e dai suoi tratti distintivi”. Ha ragione Jacopo, accettare che il vino dealcolato entri nella produzione di alcune nostre aziende vitivinicole non significa non essere consci che si tratta di un prodotto ben lontano dalla sua origine più autentica.
Ma è proprio questa consapevolezza che consente alle aziende di fare scelte corrette, coerenti con la loro reale identità. E per questo, è fondamentale sottolinearlo più volte, questa tipologia di produzione sarà coerente solo per alcune tipologie di imprese, non certo per le piccole realtà artigianali tanto per intenderci. Come pure dobbiamo prendere atto che, sempre sfruttando l’esempio del vino dealcolato che si tratta di “un prodotto diverso che assolve a un ruolo diverso”, utilizzando sempre le parole del giovane enologo senese.
Cosa significa quindi? Che dobbiamo accettare che vi sono vini o prodotti “affini” ad esso che coinvolgono target ben diversificati. Certo è un’ovvietà ma tutt’oggi troppo spesso si parla di consumatori di vino in maniera generalizzata dove, al massimo, si fanno solo diversificazioni in base alla generazione o al sesso con tutte le pericolose semplificazioni che ben conosciamo. A questo riguardo mi ricordo le polemiche ormai di molti anni fa riguardo ai rischi derivanti dall’ingresso sul mercato di un numero sempre maggiore dei cosiddetti vini “in cartone” (in tetrapak).
Un noto esperto di marketing del settore, eravamo nei primi anni ’90 (il Tavernello era nato nel 1983 come primo prodotto vinicolo, in Italia, ad essere confezionato in contenitori tetrapak), mi disse una frase che, onestamente, ho utilizzato anch’io per molti anni: “Non c’è nessuna riserva di principio nei confronti del packaging in tetrapak, però dobbiamo tenere conto che per il consumatore di quella tipologia di confezionamento il vino rappresenta di fatto una bevanda idroalcolica e vengono meno tutti i cosiddetti fattori immateriali”. In quegli anni il settore vitivinicolo italiano stava facendo sforzi enormi per qualificare la produzione e sembrava un grave arretramento ritornare a prodotti che apparivano interessanti solo dal punto di vista “funzionale”, di praticità e di essere abbordabili sul fronte prezzo.
Questi timori di fatto non sono mai stati completamente fugati anche se il tetrapak è entrato di fatto nelle abitudini di acquisto di quasi il 30% dei consumatori di vino nel nostro Paese. Ma cosa ci ha insegnato questa esperienza? Che ci piaccia o no ci saranno sempre fasce di consumatori che vedono nel vino o “prodotti simili” un qualcosa molto lontana da quel fascino che noi wine lovers gli riconosciamo.
Arricciare il naso, snobbare queste fasce di consumatori nel nome della difesa del rango del “vino che conta” significa decidere di costruire una torre d’avorio con uno spazio riservato ad un numero di eletti che non sarà mai sufficiente per garantire la sostenibilità economica di un comparto così vasto e strategico. Questo, però, a mio parere, non deve nemmeno giustificare una rincorsa sconsiderata da parte delle aziende del vino a “volere accontentare tutti”.
Che il vino dealcolato di fatto rappresenti forse l’ultima frontiera prima di sconfinare sui soft drink è indubbio. Ma “tenersi in casa” questa tipologia conviene e non deve spaventarci troppo perché, utilizzando ancora le parole di Jacopo Vagaggini: “È probabile che il vino dealcolato smuova degli equilibri, spingendo il mercato verso vini meno alcolici, un aspetto su cui lavoro da tempo su molti fronti sperimentali: nuove forme di allevamento, nuovi cloni e soprattutto portinnesti più resistenti alla siccità, prodotti e lavorazioni che aiutano la pianta a tollerare meglio il caldo e lo stress. Da alcuni anni sto lavorando su nuovi ceppi di lievito in grado di allungare la prima fermentazione del vino, chiamata glicero-piruvica, che sottrae parte dello zucchero destinato alla fermentazione alcolica. Questo porterebbe ad una diminuzione dell’alcool complessivo nel vino, aumentando invece la concentrazione di glicerolo, molecola responsabile della cosiddetta “sucrosité”, ossia la dolcezza senza zucchero, considerata dai francesi uno dei requisiti più importanti di un grande vino”.
Mi sembra che la strada suggerita da Jacopo sia quella giusta e arrivando da un Millennials assume un ulteriore valore aggiunto.