Nel mio ultimo editoriale avevo evidenziato come sia un errore continuare a dire che “tutti i vini sono di qualità”, che ormai la qualità è una sorta di prerequisito che praticamente tutte le aziende sono in grado di avere.
Un errore grave sotto tutti i punti di vista perché impedisce di far percepire in maniera chiara le “differenze” tra i tantissimi vini prodotti, e questo determina una conseguenza gravissima sul riconoscimento da parte dei consumatori di un “giusto” prezzo.
Riuscire, pertanto, a far riconoscere un giusto valore al vino è una sfida sicuramente molto complessa ma al tempo stesso fondamentale se si vuole almeno provare ad aumentare il suo percepito da parte dei consumatori e, di conseguenza, il suo prezzo medio.
In questa direzione, sono arrivati “spietati” a Vinitaly i numeri di Nomisma Wine Monitor che hanno evidenziato come il prezzo medio al litro del vino italiano all’export è oggi di 3,60 euro rispetto agli 8,80 della Francia. Molto meno della metà, e non può consolarci più di tanto se dieci anni fa stavamo peggio con un preoccupante 2,22 euro/litro.
E deve consolare ancora di meno osservare che il prezzo medio del vino australiano è di 2,07 euro, quello cileno è 1,86 euro e, addirittura, quello spagnolo è 1,17 euro!
Sono prezzi che confermano ulteriormente la mia triste tesi e cioè che, a livello mondiale, il vino gode (si fa per dire) di una bassa, tremendamente bassa reputazione.
Nonostante le cose stiano leggermente migliorando in quest’ultimo decennio, grazie a quello che viene definito fenomeno della “premiumisation” (cioè crescono maggiormente in proporzione le vendite di vini premium o superpremium rispetto a standard ed entry level), non possiamo assolutamente ritenerci soddisfatti.
E per comprendere le ragioni di questa così bassa percezione da parte dei consumatori ho provato a fare alcuni confronti con altre tipologie di prodotto.
Mi sono ispirato, innanzitutto, a quello che è presente nel mio armadio. L’ho aperto e, facendo una breve analisi, posso affermare che è costituito per il 50% da vestiti (giacche, pantaloni, maglie, maglioni, giacconi, ecc…) di media qualità, un 20% di bassa qualità e un 30% che potrei definire di buona/ottima qualità. Ritengo questa mia valutazione decisamente oggettiva e legata sia al valore qualitativo intrinseco dei miei capi di abbigliamento sia alla credibilità ed autorevolezza dei brand ad essi legati.
Mi sono quindi chiesto: quanti consumatori sono in grado, oggi, di fare valutazioni oggettive rispetto al valore che hanno nelle loro cantine in termini di vino? Ho cercato la risposta tra amici e parenti e il risultato è stato, per quanto prevedibile, decisamente deludente.
Quando si parla di vino, infatti, la maggior parte dei miei interlocutori è “orgogliosa” nel dire di riuscire a spendere poco e di portarsi comunque a casa prodotti che loro considerano di qualità, talvolta addirittura eccelsa.
Ho chiesto allora ai miei interlocutori se, quando vanno ad acquistare un capo di abbigliamento (ad esempio da H&M) abbiano la medesima percezione di quando vanno al supermercato ad acquistare una bottiglia di vino sotto i 5 euro.
“Ma certo che no, Fabio, a H&M o store similari ci andiamo perché non possiamo permetterci sempre vestiti di alto livello”: questa la risposta più o meno data da tutto il panel parentale e amicale che ho intervistato.
Ecco, io penso che proprio qui ci sia l’inghippo, il corto circuito.
Se per una giacca, ma anche un’auto, una bicicletta, un cellulare, una macchina fotografica, un hotel, e potrei andare avanti in eterno, la maggioranza dei consumatori ha una percezione chiara del valore di ciò che acquista (in tutte le sue diverse sfaccettature), quando si tratta di vino tutto diventa molto più vago e praticamente impercettibile.
Nel vino, addirittura, spesso si è arrivati ad essere “sospettosi” nei confronti dei prezzi più alti, quasi ci fosse dietro chissà quale truffa. La risposta più facile da dare a siffatta situazione sarebbe quella che le etichette di vino sono tantissime ma i brand riconosciuti sono pochissimi.
Verissimo, il livello di “branding” nel mondo del vino è ancora bassissimo (nonostante sia il comparto agroalimentare messo meglio in tal senso, pensa un po’), ma possiamo dare tutta la colpa allo scarso investimento in marketing e comunicazione da parte delle aziende vitivinicole?
Io penso di no, pur ritenendo avvilente e preoccupante l’assoluta trascuratezza, per usare un eufemismo, che troppe aziende del vino del nostro Paese hanno sul fronte della comunicazione.
Pretendere, infatti, di vedersi riconoscere un giusto prezzo senza che il proprio brand abbia un minimo di visibilità può essere considerato ingenuo, se non una vera e propria follia imprenditoriale.
Detto questo, però, ritengo che anche tutto il nostro mondo della comunicazione, della divulgazione e della critica enologica debba fare un serio esame di coscienza.
Perché se, a distanza di ben 37 anni dal drammatico scandalo del metanolo, il “nuovo” modello di comunicazione del vino (quello che finalmente doveva riuscire a far percepire ai consumatori cosa significa produrre vini di “qualità”) registra questi risultati, significa solo una cosa: siamo riusciti ad intercettare l’interesse di troppo pochi consumatori; siamo riusciti a farci comprendere probabilmente solo a pochi eletti.
Abbiamo pensato, insomma, che avremmo potuto convertire milioni e milioni di consumatori in milioni e milioni di sommelier. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.