Abbiamo già scritto in diretta numerosi commenti a questo ProWein 2023 (fra cui questo approfondimento sul primo giorno, questo sul secondo e questo sulla giornata conclusiva) ma oggi, a distanza di tre giorni dalla chiusura della nota fiera di Düsseldorf, penso sia quanto mai opportuno stimolare una riflessione più ampia su quali format fieristici necessiti, oggi, il nostro settore vitivinicolo.

In premessa, ritengo sia corretto evidenziare come non sia per nulla facile trovare formule coerenti e utili ad un settore che deve confrontarsi con un mondo in continua e profonda trasformazione. Allo stesso tempo, però, non si può nemmeno continuare a far finta di nulla e non provare almeno ad analizzare con onestà quale sia lo stato attuale del sistema fieristico del vino internazionale e tentare di individuare alcune possibili soluzioni.

Partiamo da quest’ultima edizione di ProWein che ha evidenziato, in estrema sintesi, alcuni elementi rilevanti: dopo un triennio nel quale il vino sembrava uscito indenne, o quasi, da pandemia, guerre e rincaro costi, l’impatto della crisi socio-economica e finanziaria sta senza dubbio facendo sentire il suo peso in questo primo triennio 2023; le aziende più piccole sembrano essere quelle che stanno pagando maggiormente questa difficile congiuntura; i consumi dei vini non si stanno evolvendo come speravamo e, soprattutto, le giovani generazioni sembrano essere sempre meno attratte dalla nostra amata bevanda.

Ma se questo è lo scenario “economico”, ProWein è stata una spietata cartina al tornasole per comprendere il livello di competitività delle nostre imprese vitivinicole.

Essendo la manifestazione di Düsseldorf un evento rigorosamente dedicato ai professionisti del vino, le imprese che oggi non hanno un’adeguata capacità organizzativa (a partire dal saper gestire, pianificare un’agenda appuntamenti degna di questo nome prima di arrivare in fiera) non hanno i requisiti necessari per partecipare. Ma questo, si potrebbe obiettare, lo si sa da anni, forse da decenni; e quindi dove sta la novità?

Più che di novità, io preferisco parlare di necessità non più rimandabili. E non sono poche. La prima è sicuramente la necessità che le aziende facciano un approfondito e onesto check-up sulla loro capacità di “internazionalizzarsi”. Non voglio fare uno spot pubblicitario a Wine Meridian, ma noi da molti anni abbiamo attivato un servizio di analisi (l’abbiamo definito proprio “check-up export) per aiutare le imprese a verificare quali siano i loro punti di forza e di debolezza, e di conseguenza quali soluzioni ed investimenti realizzare per diventare adeguatamente attrezzate per affrontare i mercati internazionali. Sperare, ancora oggi, di avere la classica “botta di fortuna” e trovare un partner commerciale, un importatore che ti apra orizzonti commerciali straordinari in qualche mercato non si può nemmeno considerare una ipotesi remotissima ma semplicemente una inutile illusione.

Ma in questa direzione, oltre alla “responsabilità aziendale”, vi è anche quella “istituzionale”.

Voglio essere molto franco, in questo senso: tutti quei “contenitori istituzionali”, organizzati da Regioni o Consorzi di Tutela, che agevolano (talvolta anche moltissimo) la presenza di aziende non preparate per l’export non fanno un bene né alle imprese e nemmeno ai loro territori produttivi e, più in generale, nemmeno alle realtà italiane più competitive sul fronte internazionale.

So che non è gradevole questo commento e può apparire ingeneroso perché vi è assoluta buona fede da parte delle istituzioni nel supportare la presenza di piccole realtà (o anche grandi ma non ben organizzate) in fiere internazionali come ProWein. Però quali sono i risultati di questo sforzo? In larga parte negativi. Infatti, la maggioranza delle aziende da noi intervistate che si sono dichiarate poco soddisfatte da ProWein sono proprio quelle che sono arrivate a questa manifestazione non pronte e “agevolate” dalle loro istituzioni di rappresentanza.

Questa riflessione apre un capitolo molto complesso ma indispensabile da affrontare, e cioè quello di come le istituzioni (Regioni, Consorzi in primis) possono concretamente agevolare i processi di internazionalizzazione delle loro imprese. Ne scriverò a breve; al momento mi limito a sintetizzare il mio pensiero in una parola unica: formazione.

È chiaro che, se a ProWein 2023 vi fossero state invece che le oltre 1.700 imprese del vino italiane presenti “solo” le circa 500 più pronte, le cose sarebbero andate decisamente meglio e non ci sarebbe nemmeno stato il cosiddetto “effetto acquario”, ovvero una fiera con tanti espositori ma troppo pochi buyer.

Ed è proprio su quest’ultimo fronte che si apre la grande responsabilità degli organizzatori fieristici. Se continuano ad essere solo “venditori di spazi espositivi”, non vi è dubbio che per loro più imprese ci sono meglio è. Se invece vogliono diventare finalmente soggetti preziosi, utili concretamente allo sviluppo del wine business, devono necessariamente essere fatte scelte in gran parte diverse da quelle attuali.

La prima scelta, a mio modesto parere, si chiama “targetizzazione”: occorre costruire format e servizi fieristici in relazione al target che si vuole intercettare e agli obiettivi che si vogliono conseguire.

Continuare a realizzare fiere del vino “campionarie”, cioè in grado di rispondere a qualsiasi tipo di fabbisogno e e di tipologia di imprese, non solo è impossibile, ma determina una costante e pericolosa frustrazione.

E ci vuol poco a capire questa problematica: basta fare una proporzione tra aziende espositrici e buyer “reali” presenti in una fiera. Per accontentare tutti, un ente fieristico dovrebbe essere in grado di portare non solo un numero ben maggiore di buyer (che dovrebbero essere tra l’altro ben motivati e non spinti solo dalla gratuità della loro presenza) ma anche diversificati in relazione alle diverse tipologie di imprese (piccole, medie, grandi, industriali, vignaioli, imbottigliatori…).

Non è sufficiente avere aree divise all’interno della fiera se poi i buyer sono sempre quelli e non profilati coerentemente in relazione alle diverse tipologie e fabbisogni delle imprese.

Questa modalità del “pretendere di piacere a tutti” delle fiere è anche molto pericolosa, perché spinge a pensare che le fiere non servono più, cosa che invece è assolutamente falsa perché mai come oggi servono manifestazioni “fisiche” ben ideate e strutturate, ma soprattutto diversificate in relazione alle diverse tipologie di imprese in relazione ai loro fabbisogni.

Su quest’ultimo aspetto, pertanto, ritengo che sia oggi importante chiedersi se siano compatibili due o tre fiere internazionali del vino nel continente europeo nel medesimo anno. Se dovessimo limitare il nostro sguardo al 2023 con Parigi, Düsseldorf e Verona in infilata (e il prossimo anno saranno ancora più vicine tra loro!) la risposta sarebbe assolutamente no.

Ma anche togliendo Vinitaly, che va considerata una manifestazione prettamente italiana, possono risultare comunque anche “troppe” Wine Paris/Vinexpo e ProWein? Se Parigi sceglie una seria via “internazionale” dando spazio reale anche agli altri Paesi produttori, la mia sensazione è che, nel medio-lungo periodo, ProWein rischi di tornare ad essere la “fiera degli importatori tedeschi”.

Ma non penso sia sufficiente soffermarsi su quale fiera “sopravviverà“; occorre comprendere bene invece quale tipo di fiera necessiti il nostro sistema vitivinicolo, e per questo ritengo che la “personalizzazione” degli eventi fieristici sia la via non solo preferibile, ma indispensabile.

In quest’ultima direzione, appare quanto mai opportuna anche l’idea di una o più fiere internazionali che si aprano ai consumatori, ai wine lovers. A forza di fare gli “schizzinosi” con eventi solo per pochi eletti, ho la sensazione che ci perdiamo un mare di potenziali appassionati, con il rischio di fare apparire sempre di più il vino una bevanda per pochi.