Un proverbio popolare dice che “Il calzolaio va in giro con le scarpe rotte”. Ma potrebbe essercene anche un altro: “Il Paese più bello al mondo si promuove nel modo più brutto”.

È quanto mi è venuto in mente guardando l’ennesima campagna promozionale del Made in Italy, commissionata dal Ministero del Turismo ed Enit alla nota agenzia Armando Testa.

Il claim della campagna è “Open to Meraviglia” ma alla fine, ancora una volta, le nostre meraviglie vengono declinate con il solito sapore da “pizza e mandolino” e anche un’agenzia dalla lunghissima esperienza come Armando Testa non è riuscita ad uscire dai soliti luoghi comuni.

Sostituire il “pizzaiolo italico” con la Venere di Botticelli in versione virtual influencer non è stato sufficiente a dare un senso di contemporaneità, di freschezza al messaggio promozionale.

Per quelli che, come il sottoscritto, si occupano da molti anni di promozione del vino italiano nel mondo, si tratta di una storia che si ripete. Sembra un paradosso, ma quando tentiamo di promuovere il cosiddetto “Made in Italy” a livello internazionale dimentichiamo sempre di essere un Paese moderno, capace ancora oggi di grande creatività, e ci rifugiamo nelle solite immagini stereotipate che rimandano più all’Italia anni ’60 che a quella attuale.

La campagna mi ha ricordato quelle foto delle nostre città e paesi degli intermezzi televisivi di cinquant’anni fa, solo che questa volta al posto del suggestivo bianco e nero troviamo i colori.

Ma, a mio parere, non si tratta di una caratteristica di quest’ultima campagna istituzionale: è il leit motiv di gran parte della promozione del nostro Made in Italy.

E non mi meravigliano più di tanto le parole di Marco Baldocchi, professore e direttore della ricerca di Neuromarketing all’associazione italiana delle Neuroscienze applicate, esperto e autore per Hoepli di “Neurofood”, che ha dichiarato: “Un tempo, il Made in Italy era una potente strategia di marketing in grado di attirare i consumatori ad acquistare prodotti italiani. Era un simbolo di qualità, creatività e autenticità. Per decenni, il Made in Italy è stato il segno distintivo della moda, del design, del cibo e dell’artigianato italiani. Ma i tempi sono cambiati, il Made in Italy ha perso il suo fascino e non funziona più come una volta”.

A questo proposito, vi consiglio di leggere l’articolo della brava Laura Donadoni da noi pubblicato dal titolo decisamente provocatorio ma probabilmente anche molto utile per riflettere: “Il Made in Italy come brand è morto?”.

Ma in questo possibile declino del valore del brand “Made in Italy”, quanto hanno inciso e incidono  anche campagne promozionali come quest’ultima lanciata dal nostro Ministero del Turismo?

Sicuramente sono indice di uno scarso studio e approfondimento per comprendere meglio gli attuali valori del nostro Made in Italy. Come pure sono evidentemente assenti anche indagini su come l’Italia sia percepita almeno sui mercati internazionali più importanti.

Se a questo aggiungiamo gli svarioni più evidenti e paradossali come addirittura gli errori di traduzione su cui oggi ride tutto il mondo (Camerino che tradotto in tedesco si trasforma in “guardaroba”, o Prato tradotto letteralmente nel germanico “Rasen”…), si comprende bene che, quando concepiamo attività promozionali per il sistema Paese, siamo (per usare un eufemismo) dei superficiali.

Di base c’è sempre l’idea che quando parliamo di promozione e di marketing non serva competenza ma solo qualche idea raffazzonata.

E poi chi se ne frega se le immagini sono in bassa risoluzione, se l’unica cantina vitivinicola ripresa non è in Italia ma in Slovenia; abbiamo semplicemente risparmiato sulle fonti e abbiamo evitato di pagare professionisti della fotografia da scorrazzare in giro per l’Italia.

Se poi non siamo stati in grado di registrare nemmeno il dominio, cosa ci sarà così di negativo? Sono ben altri i problemi.

Certo, i problemi del nostro Paese sono molti ma questo approccio poco professionale, superficiale, lascia stupefatti e con quella solita sensazione, molto frequente nel nostro Paese, che tanto alla fine nessuno pagherà per questi errori se non i contribuenti che hanno finanziato la campagna.

E per fortuna i contribuenti vedono raramente le campagne istituzionali che hanno finanziato e che tutt’oggi foraggiano con le loro tasse, perché probabilmente da “Open to Meraviglia” passeremmo a “Open to incazzatura”.

In conclusione, non posso tralasciare il tema del bicchiere d’acqua al posto, magari, di un vino nella (ormai non so se tristemente) nota immagine delle Venere pizzaiola; spero che Botticelli non si rivolti nella tomba…

Difficile comprendere se si è trattato di una svista o una scelta all’insegna del politicamente corretto (non so se mettere un rosso, un bianco, un rosato o una bollicina e allora meglio un bicchiere d’acqua), o del voler evitare le “pericolose” bevande alcoliche.

Su questo fronte, comunque, sposo in pieno il dissenso espresso da Unione Italiana Vini e dal direttore del Corriere Vinicolo Giulio Somma che considerano questa “scelta” un errore, perché le produzioni tipiche (a partire dal vino) sono un fattore chiave dell’identità e credibilità del nostro Made in Italy.

C’è chi ha obiettato che anche l’acqua è uno straordinario prodotto della nostra terra… verissimo, ma con la differenza (non da poco) che in questo caso manca la mano creativa dell’uomo. Invece, quando parliamo di Italia, non dobbiamo mai dimenticare che la vera forza sta nel “saper creare, saper produrre italiano”.

Aspettiamo purtroppo da decenni anche il “saper comunicare italiano”…